Le variazioni casuali
Le implicazioni metodologiche e filosofiche di un concetto centrale della teoria darwiniana*
Saverio De Marco
Introduzione
Il concetto della variazione
casuale è alla base dell’impianto teorico darwiniano sulla selezione
naturale. In questa tesi vorrei descriverne la sua genesi e le sue
implicazioni, avendo come riferimento l’opera più importante di Darwin, L’origine delle specie, rilevarne le
critiche a cui fu sottoposta e mettendo in risalto il carattere di innovazione
metodologica profonda. Consapevole di addentrarmi in un campo vasto e
complesso, una parte di questo lavoro tenterà una breve rievocazione degli
studi sulla genetica successivi a Darwin, che consentirono di scoprire le cause
della variazione, problema che Darwin aveva lasciato insoluto. Fu però proprio
l’ammissione dell’inconoscibilità delle cause che consentì a Darwin di superare
gli ostacoli che si frapponevano alla sua teoria e che ne determinò il suo carattere
“aperto” alle integrazioni successive, cosicché essa poté in questo modo
restare valida fino ad oggi. “Così avvenne che essa fosse integrata e
reinterpretata in seguito alle nuove acquisizioni della biologia ed anche
emendata in alcun i suoi presupposti fondamentali (come l’‘eredità per
mescolamento’ e l’ ‘ereditarietà dei caratteri acquisiti’), senza però mai
perdere la propria identità[1]. Oltre al discorso
metodologico e storico-scientifico, dedicherò una parte anche sul concetto di
“caso” in Darwin e le sue implicazioni filosofiche, le quali conducono ad una
filosofia della natura nettamente contrapposta alle visioni creazionistiche ed
antropocentriche.
Le variazioni
individuali come fulcro della teoria darwiniana
Nella sua opera fondamentale, L’origine delle specie, Darwin precisa cosa debba intendersi per
variabilità, un concetto che propone un modo di pensare “popolazionistico” e si
dissocia da un approccio tipologico ed essenzialistico alla nozione di specie, quell’approccio
tradizionale che aveva per esempio caratterizzato scienziati come Linneo. La
specie è caratterizzata da individui diversi, che possono presentare variazioni
individuali importanti: “Nessuno pensa che gli individui di una stessa specie
siano tutti conformi ad un solo modello. Queste differenze individuali sono
importantissime per noi, in quanto forniscono materiali che possono essere
accumulati dalla selezione naturale nello stesso modo in cui l'uomo può
accumulare, secondo una direzione qualsiasi, le differenze individuali che
compaiono nelle sue produzioni domestiche.[2]” In tale passaggio c’era
il nucleo della teoria dell’evoluzione. L’ osservazione da cui partì Darwin
poteva apparire quasi piuttosto banale e forse altri l’avevano fatto prima di
lui, senza però darle la dovuta importanza: in ogni popolazione esiste sempre
qualche individuo diverso dagli altri. Tutto il processo evolutivo trae origine
dal fatto che in ogni generazione nascono individui diversi, varianti, sia
nelle popolazioni naturali che in quelle artificiali creati dall’uomo. Proprio
la selezione artificiale viene operata dall’uomo sulla base della predilezione
di alcune variazioni. La seconda osservazione da cui mosse la teoria
darwiniana, oltre a quella relativa alla variabilità, riguarda proprio
l’efficacia della selezione artificiale
che l’uomo compie su piante e animali. L’idea che sorse spontanea in Darwin
riguardava la possibilità che anche la natura si comportasse come un allevatore
o un coltivatore che sceglie alcuni individui da far accoppiare e impedisci ad
altri di generare figli (non a caso usò il termine selezione naturale per distinguerlo da quello di selezione artificiale).[3]
Darwin evitò quindi qualsiasi ridefinizione delle specie. La
sua posizione è che il termine specie non poteva essere distinto sul piano della
definizione dal termine varietà. Darwin anzi sottolineava proprio le difficoltà,
per il naturalista, nel distinguere tra specie e varietà, avvalorando la tesi
secondo cui le varietà non sono altro che specie incipienti.[4] Il processo evolutivo,
come lo immagina Darwin, consiste proprio nell’accumulazione graduale e
lentissima in tempi lunghissimi, di piccole variazioni, che Darwin chiama
appunto “casuali”. Le variazioni, oltre ad essere casuali nel senso che le loro
cause non sono note, sono casuali in quanto di per sé non sono “adattative”,
non si producono necessariamente come risposta alle condizioni ambientali;
anzi, nella maggioranza dei casi, sono inutili o indifferenti. Se la variazione
possa essere utile o meno viene stabilito dalla complicata rete delle relazioni
ecologiche di un determinato ambiente.[5] La parola “casuale” ha
molti significati e va prima di tutto chiarito qual è quello che le si
attribuisce. Può significare: “non determinato da cause”, e questo è il
significato che a tale parola si dà nella meccanica quantistica. Ma il
significato che le si attribuisce e è il più delle volte diverso: quello che
corrisponde alla parola random, La
teoria darwiniana assume le variazioni fenotipiche come casuali nel senso di random: nel passaggio da una generazione
ad un’altra il fenotipo può subire una piccola variazione tra quelle possibili.
La casualità significa che non ci sono direzioni di variazioni privilegiate.
Sarà la selezione naturale a scegliere, a introdurre una direzionalità. [6] Come afferma Pievani: “il
fatto che la variazione fosse «casuale» era allo stadio di mera intuizione
osservativa: le cause interne della variazione gli apparivano oscure, ma la
condizione stringente affinché la selezione naturale non perdesse il suo valore
di meccanismo direttivo era che la variazione derivasse da un’insorgenza
spontanea e autonoma, non istruita direttamente dall’ambiente”.[7]
Darwin stesso precisava subito cosa dovesse intendersi per
casualità: il fatto che la variazione sia causale non vuol dire che non abbia
cause; semplicemente le cause per Darwin sono inconoscibili: “nei capitoli
precedenti, parlando delle variazioni — così comuni e multiformi nei viventi
allo stato domestico ed in minor grado in quelli allo stato di natura — mi sono
espresso come se fossero dovute al caso. Naturalmente si tratta di
un'espressione assolutamente scorretta che, però, serve a far capire
chiaramente la nostra ignoranza delle cause di ciascuna variazione particolare.[8]”
Ricapitolando, “ogni popolazione mostra al proprio interno
una notevole variabilità dei caratteri.
Alcune caratteristiche si rivelano più favorevoli di altre, in quanto
permettono all’individuo che le possiede
di adattarsi all’ambiente e di sfruttare meglio le risorse
naturali che ha a disposizione”[9].
In ciò si coglie la differenza con le teorie di Lamarck.
Famosa è rimasta la differenza tra le “giraffe” di Lamarck e quelle di Darwin. Nelle parole dello stesso Darwin, Lamarck:
“quanto alle modalità delle mutazioni, egli le ha attribuite in parte all'azione
diretta delle condizioni fisiche di vita, in parte all'incrocio con forme già
esistenti e, in larga misura, all'uso ed al non uso, vale a dire alle
conseguenze delle abitudini. Si direbbe che egli attribuisca proprio a
quest'ultimo fattore tutti i mirabili adattamenti osservabili in natura, come,
per esempio, il lungo collo della giraffa, che serve all'animale per brucare
tra i rami degli alberi.[10]” Darwin, come osserva
Pievani: “per dare più incisività alla variazione stessa non disdegnò di
recuperare a più riprese le idee di Lamarck sugli effetti ereditabili dell’uso
e del disuso, sulla trasmissione di caratteri acquisiti e sul possibile ruolo
delle «condizioni di vita» nel modulare la variabilità degli organismi (per
quanto sottoposta comunque, è bene ricordare, al vaglio della selezione
naturale). Nonostante questi e altri tentennamenti circa l’ereditarietà, l’idea
che la variazione emergente nelle popolazioni di organismi fosse «non
direzionata» nel senso di priva di un piano preordinato”[11].
Nella concezione di Lamarck ovvero, la variazione
“allungamento del collo” serve per raggiungere il ramo dove si trova il cibo:
quindi fin da subito a rendere possibile la sopravvivenza dell’individuo. La
“giraffa darwiniana” invece allunga anche lei il collo a questo scopo, ma fa
parte di una popolazione di giraffe che hanno il collo più lungo e il collo più
corto, ma solo quelle che hanno una lunghezza sufficiente a raggiungere i rami
sopravvivono e trasmettono così ai discendenti la caratteristica vantaggiosa “collo
lungo”.[12]
“… In natura, quando cominciava ad apparire la giraffa, gli
individui capaci di brucare più in alto e di arrivare, durante le siccità,
anche solo un paio di pollici più su degli altri, in molti casi saranno
sopravvissuti, perché avranno potuto vagare per tutto il territorio in cerca di
alimenti. Che gli individui appartenenti alla stessa specie molte volte
differiscano leggermente quanto alla lunghezza relativa di tutte le loro parti
è cosa che si può controllare in molte opere di storia naturale, ove vengono
fornite precise misurazioni. Queste leggere differenze nelle proporzioni,
dovute alle leggi dello sviluppo ed alla variazione, per la maggior parte delle
specie non hanno la minima utilità od importanza. Però le cose saranno andate
altrimenti con la giraffa primordiale, tenendo conto delle sue probabili
abitudini di vita; infatti quegli individui che avevano qualche parte o
parecchie parti del corpo alquanto più allungate che di norma, in linea di
massima saranno sopravvissuti. Essi si saranno incrociati fra di loro lasciando
una prole che avrà ereditato le stesse caratteristiche corporee o che avrà
avuto la tendenza a variare nella stessa maniera; per contro, gli individui
meno favoriti sotto questo profilo avranno avuto una maggiore tendenza a
scomparire”[13]
.
Fig. 1: “Le giraffe di Lamarck”[14]
.2: “Le giraffe di Darwin”[15]
Il metodo di Darwin
Le critiche a Darwin successive alla pubblicazione de L’ origine delle specie furono tante e
riguardano diversi argomenti e nodi problematici. Per gli scopi di questo
lavoro, vanno ricordate le critiche e gli attacchi che Darwin ricevette
rispetto alla legge della variazione e al concetto di “casualità” che essa
necessariamente implicava. Darwin come si è già accennato, trattava la questione
dell’origine delle specie prescindendo da una spiegazione dell’origine delle
variazioni. La nozione della causalità delle variazioni sembrava insostenibile.
Questa obiezione si basava su un’immagine della scienza fisica che proprio in
quegli anni mostrava i primi segni di crisi e che sarebbe stata sostituita da
una concezione probabilistica dei fenomeni naturali.[16]Questo discorso ha come si
può notare implicazioni anche sul fronte della storia della metodologia
scientifica, proprio perché, come si è detto, l’impostazione di Darwin
rinunciava a spiegare le cause delle variazioni, concentrandosi sul dato
empirico prioritario della loro permanenza. La casualità inoltre agiva su un
doppio binario; non solo riguardava la natura delle variazioni individuali ma
anche il loro rapporto con l’ambiente, che le selezionava decretandone
l’utilità o meno nel processo evolutivo delle specie. Quello di Darwin “è un
complesso di idee tanto semplice quanto difficile da digerire, per una ragione
precisa: l’incontro contingente di due catene causali indipendenti (la
variazione individuale nelle popolazioni e le condizioni esterne di esistenza,
tra specie e specie, o tra specie e ambienti) esclude che il cambiamento
evolutivo possa essere direzionato da spinte interne, o canalizzato verso un
fine, o tantomeno progettato da una mente intenzionale.”[17]
A questo punto bisognerà affrontare brevemente il discorso
sul metodo scientifico utilizzato da Darwin per l’edificazione della sua teoria,
proprio perché come si è esplicato sopra, se ciò che nell’impianto teorico
darwiniano poteva apparire come una grossa lacuna (l’aver evitato di occuparsi
delle cause delle variazioni) si rivelò un vantaggio, frutto di un’abile mossa
metodologica. In primo luogo, come si è accennato, Darwin rifiuta un approccio
tipologico ed essenzialistico, e ciò sarà decisivo, perché gli consentirà di
afferrare in tutta la sua portata la questione delle variazioni: “[Darwin] attraverso
l’estrapolazione dalla selezione artificiale, ha così descritto il propellente
necessario per far girare il motore della selezione naturale, rovesciando i
presupposti dell’essenzialismo: la variazione individuale è il fattore centrale
della realtà naturale, è onnipresente e rende sfumate le distinzioni fra
varietà e specie. La nozione di queste ultime come «tipi ideali» viene
abbandonata a favore di una definizione meramente convenzionale delle specie
come etichette provvisorie e arbitrarie per nominare «gruppi di individui molto
somiglianti fra loro». Non c’è soluzione di continuità tra varianti
individuali, popolazioni divergenti, sottospecie e specie incipienti.”[18]
Seguendo le osservazioni di Michael T. Ghiselin si può
affermare che il principale contributo scientifico di Darwin non sta nell’aver
affermato che gli esseri viventi sono soggetti a evoluzione (un’idea che era
già stata espressa più volte prima di lui), ma nell’aver proposto una teoria
scientifica dell’evoluzione, in termini di selezione naturale. La nozione
centrale è quella di una dialettica fra un fenomeno biologico che potremmo
definire ‘inerziale’ (cioè, un fenomeno che tende a proseguire in maniera
uniforme fino a che una causa esterna non intervenga a modificarne o
contrastarne la realizzazione) e una condizione ambientale che lo viene
continuamente a limitare: nel caso della selezione naturale, infine, la
produzione all’interno delle popolazioni di variazione ereditabile e la diversa
fitness (cioè il diverso successo nella sopravvivenza e nella riproduzione) che
è associata, in un determinato ambiente, a ciascuna delle varianti individuali:
nel caso della selezione naturale, la produzione all’interno delle popolazioni
di variazione ereditabile e la diversa fitness (cioè il diverso successo nella
sopravvivenza e nella riproduzione) che è associata, in un determinato
ambiente, a ciascuna delle varianti individuali. Ciascuna delle teorie viene
sviluppata da Darwin secondo un impianto logico ipotetico-deduttivo, che qui si
analizza brevemente a riguardo della teoria dell’evoluzione per selezione naturale.
Si parte dalle quattro ipotesi seguenti:
1. all’interno delle popolazioni animali e vegetali esistono
differenze individuali (variazione)
2. queste differenze sono, almeno in parte, ereditabili
3. le diverse varianti presenti all’interno della popolazione
sono diversamente abili nel superamento di un problema (ad es., nel procurarsi
il cibo, nello sfuggire ai predatori, nell’allevare la prole)
4. il livello di successo nel risolvere quel problema è
rilevante nel determinare la sopravvivenza (e la possibilità di riprodursi) nel
particolare ambiente in cui al momento la popolazione si trova a vivere.
Il ragionamento prosegue, affermando che se (dove) le quattro ipotesi elencate sono applicabili, allora (lì) varrà la tesi seguente: la
selezione naturale produce un cambiamento evolutivo. Questo impianto logico è
quello proprio del metodo ipotetico-deduttivo. Ciò che rende scientifica
l’ipotesi formulata (in questo caso, ciascuna delle ipotesi 1-4, o il loro
insieme) è la capacità della teoria in cui sono inserite di generare predizioni
che possono essere verificate ed eventualmente ‘falsificate’ nel mondo reale.
In altre parole, è attraverso una verifica empirica che possiamo determinare se
la selezione naturale è la causa, o no, dell’evoluzione dei viventi.
articolando sul piano logico il principio dell’evoluzione per selezione
naturale, Darwin non afferma che i
viventi sono soggetti a evoluzione. E’ la teoria della selezione naturale
che spiega il meccanismo dell’evoluzione; l’esistenza di questa è provata dai
fatti – e Darwin ne presenta, metodicamente, un grande numero nei successivi
capitoli dell’Origine: la variazione negli animali domestici e nelle
piante coltivate, la variazione in natura, la successione stratigrafica dei
fossili, la distribuzione geografica degli organismi, le omologie, la
somiglianza fra gli stadi precoci dello sviluppo etc.”[19].
Oggi, dopo molti studi, esiste un consenso pressoché
generalizzato sul fatto che quella di Darwin fu un’applicazione coerente e
rigorosa del metodo ipotetico-deduttivo e i suoi successi, più che dipendere
dalla raccolta di dati, furono dovuti alla sua capacità di sviluppare una
teoria e di formulare ipotesi da sottoporre a verifica[20]. “Il naturalista inglese
decise di presentare prima analiticamente il nocciolo esplicativo della sua
teoria e poi i fenomeni che ne derivavano (…) La mossa fu ben ponderata perché
in questo modo egli sottolineò fin dall’inizio che la selezione naturale doveva
essere un processo necessario date certe circostanze (le variazioni ereditabili
e la lotta per l’esistenza) e che la trasmutazione delle specie nella
discendenza comune poteva essere intesa solo alla luce di quel meccanismo.
Subito la novità teorica, insomma, e poi la panoplia di evidenze che la
corroborano: non una massa di fatti prima e poi un’ipotesi esplicativa fra
tante altre. (…) Così facendo, sembra voler scongiurare un’evenienza puntuale:
che il lettore possa sì accettare l’evoluzione come un insieme di dati di
fatto, ma non la sua spiegazione causale centrale, cioè la selezione naturale”[21]
Le acquisizioni della
biologia e della genetica al problema della causa delle variazioni
Darwin “rimane di fondo un naturalista e, pur ponendosi il
problema della trasmissione dei caratteri biologici da padri e figli, non fa di
questo il centro della sua riflessione. Ciò contrasta nettamente con la visione
moderna, per la quale l’evoluzione è essenzialmente evoluzione di geni, o
meglio di genomi. (…) I suoi studi si basarono in sostanza sul solo aspetto
esterno e sulle caratteristiche biologiche degli organismi già formati”[22].
Come si è detto, variazione casuale e successiva selezione
naturale sono i cardini del darwinismo. Il modello per spiegare la trasmissione
dei caratteri ereditari fu proposto da un contemporaneo di Darwin, il monaco
benedettino Gregory Mendel, il quale suggeriva che il materiale sul quale
lavora la selezione naturale fosse composto da elementi discreti, che lui
chiamava fattori e e che dal 1909 in poi sarebbero stati chiamati geni,
trasmessi secondo regole prevedibili e, cosa più importante, suscettibili di
mutamento. Le mutazioni non sono adattative ma eventi casuali. La selezione
invece non è affatto casuale”[23].
Anche se Mendel era contemporaneo di Darwin on è chiaro se
l’autore dell’Origine avesse letto i
suoi scritti: “Darwin è riuscito a costruire il suo edificio ignorando quasi
totalmente l’esistenza di geni, la meccanica della loro azione e l’origine
delle loro alterazioni. Anche se avesse letto l’articolo fondamentale di Gregor
Mendel del 1866 sui fondamenti dell’ereditarietà, il che non è stato mai
appurato con chiarezza, non si sa che cosa avrebbe potuto ricavarne, dal
momento che i primi veri passi di una scienza della genetica non furono
compiuti che molto dopo la sua morte, a partire dal primo decennio del Novecento.
Quel che è certo è che le ricerche di Mendel non hanno lasciato nessuna traccia
nel pensiero di Darwin (…) Bisognerà infatti aspettare quasi cinquant’anni
perché alcuni studiosi si accorgano improvvisamente del lavoro di questo monaco
boemo, che diventerà la base di una nuova grande scienza”[24]. Mendel comprese, grazie
ad una brillante intuizione metodologica, la necessità di prestare attenzione
ad un carattere per volta – la forma dei semi, o il colore, o l’altezza della
pianta, ad esempio – anziché alla pianta intera. “A questo scopo, egli ha
selezionato le caratteristiche rispetto alle quali le piante presentavano una
netta differenza. Prima di effettuare incroci tra le piante si era assicurato
che esse fossero dei ceppi puri: si era procurato dai venditori molte varietà
di piselli e le aveva coltivate per due anni, in modo da selezionare per i suoi
esperimenti solo le varietà in cui i discendenti, relativamente ad un certo
carattere, presentavano sempre una precisa somiglianza con i genitori”[25].
Mendel dimostrò che: 1) i caratteri si trasmettevano
separatamente gli uni dagli altri (legge della "segregazione dei
caratteri"), cosicché, ad esempio, i piselli erano o rugosi o lisci, mai
intermedi; 2) alcune varietà dello stesso carattere prevalevano nella
discendenza sulle varietà alternative, cosicché incrociando piante lunghe e
piante corte di piselli si ottenevano, in proporzioni variabili a ogni
incrocio, ma matematicamente regolari, soprattutto piante lunghe (legge della
“dominanza"); 3) la trasmissione di uno dei due caratteri di una coppia di
alternative (ad esempio della coppia liscio-rugoso) era indipendente dalla
trasmissione di uno dei due caratteri di un'altra coppia (ad esempio
giallo-verde): insomma, l’alternativa relativa al colore non era legata
all’alternativa relativa alla forma della buccia (legge dell’ indipendenza”).
Mendel non aveva compiuto i suoi esperimenti per verificare
la teoria dell’evoluzione, ma solo per appurare se gli incroci tra forme
vegetali diverse potessero dar luogo a forme nuove e stabili. In un certo
senso, non era alla ricerca delle leggi generali dell’eredità. Non aveva
nessuna nozione del gene. Quelle che nei manuali di biologia e scienze naturali
figurano come "leggi di Mendel" sono piuttosto una sintesi del risultato
di ricerche e dibattiti successivi.
I primi mendeliani furono antidarwiniani. Sembrava loro
infatti che se, come aveva appurato Mendel, i caratteri ereditari erano unità
discrete (cioè ben definite e circoscritte), la nozione darwiniana di
«variazioni infinitesimali e insensibili» dovesse essere respinta, determinando
il crollo della teoria della selezione che su quella nozione si fondava. Solo
negli anni Trenta del Novecento le idee di Mendel vennero definitivamente
assunte come base della teoria darwiniana dell'evoluzione.[26]
Il successivo sviluppo della genetica rese possibile quindi rispondere
a tre domande alle quali Darwin non seppe mai dare risposta: 1. come sono
trasmesse le caratteristiche ereditarie di generazione in generazione; 2. perché
le diverse caratteristiche genetiche non si mescolano nella progenie, ma possono
scomparire per poi riapparire in generazioni successive (come il colore bianco dei
fiori di pisello); 3. in che modo si origina la variabilità su cui agisce la
selezione naturale. La combinazione della teoria di Darwin con i principi della
genetica mendeliana è detta sintesi
neodarwiniana o teoria
sintetica dell’evoluzione. Durante gli ultimi 80 anni, la teoria
sintetica ha dominato il pensiero scientifico per quanto riguarda il processo evolutivo
e ha ispirato una quantità enorme di nuove idee e di nuovi esperimenti a mano a
mano che i biologi lavoravano per chiarirne i particolari. Le attuali
controversie, che riguardano principalmente la velocità dei cambiamenti
macroevolutivi e il ruolo svolto dal caso nel determinare la direzione dell’evoluzione,
non influiscono sui principi basilari della teoria sintetica; ci consentono,
invece, di raggiungere una migliore comprensione dei meccanismi evolutivi
attualmente in atto[27].
Il concetto di casualità
e le sue implicazioni filosofiche
Come si è detto sopra, Le variazioni, secondo Darwin, sono
non solo spontanee, ma anche «casuali», e ciò non solo nell’accezione di non
conoscenza delle cause. Ma il termine "casuale" ha anche un altro
significato, distinto logicamente ma inseparabile dal primo: le variazioni non
sono orientate a favorire la sopravvivenza dell'individuo. La singola
variazione non è di per sé la risposta giusta alle esigenze poste dall'ambiente,
non nasce per adattare l'organismo all'ambiente, non garantisce di per sé la
sopravvivenza e il successo riproduttivo; anzi, nella stragrande maggioranza le
variazioni sono inutili o indifferenti, alcune perfino dannose: eliminate
queste ultime dalla selezione naturale, le altre rimangono, come si dice oggi,
"fluttuanti", in attesa che si pronunci l'ambiente[28]. Sono evidenti le
implicazioni filosofiche di questa seconda accezione di casualità, perché
inevitabilmente minano le basi della concezione creazionistica della natura,
ovvero quella di un disegno intelligente che avrebbe previsto il mondo così
come noi lo conosciamo. Come affermò Marx la visione di Darwin dava un “colpo
mortale alla teologia”[29], cadeva la concezione di
un disegno finalistico. Nelle parole di
La Vergata: “la nozione della variazione casuale o spontanea taglia alla
radice ogni possibilità di equivoco sul ruolo di un grande progettista o
direttore dell'evoluzione. Visto che le variazioni non sono di per sé correlate
con le necessità vitali degli esseri viventi, ancora meno si può pensare che
siano preordinate dal Creatore: perché questi ne farebbe nascere tante per
sprecarle quasi tutte? (…) A maggior ragione è impensabile che abbia
preordinato a beneficio degli allevatori e dei giardinieri tutte le variazioni
delle piante e degli animali domestici, molte delle quali sono nocive per
quegli organismi e inutili per l'uomo; che abbia predisposto fin dal principio
dei tempi tutte le possibili variazioni del gozzo dei piccioni perché
l'allevatore potesse selezionare le forme bizzarre del piccione gozzuto; che
abbia destinato le qualità fisiche e «mentali» del cane a variare in modo da
dare origine a una razza aggressiva e capace di atterrare un toro, per il
«brutale divertimento dell'uomo».[30] Del resto alcuni passaggi
dello stesso Darwin esemplificano bene la disillusione crescente di Darwin
sull’esistenza di un Creatore che avesse preordinato il mondo secondo una
finalità. Ciò si evince bene in una lettera indirizzata al noto botanico
americano Asa Gray, nella quale Darwin sostiene che, seppur egli non creda alla
necessità di un disegno nella natura, trova difficile credere che tutto sia il
risultato di una “forza bruta”. Osservando, in particolare, quanto siano
meravigliosi l'universo e la natura umana, Darwin conclude dicendo che tale questione
è “troppo profonda per essere risolta dall'intelletto umano”: “… confesso che
non riesco a vedere, chiaramente come altri e come desidererei, prove di un
progetto e di benevolenza tutto attorno a noi. Mi sembra ci sia troppa miseria
nel mondo. Non riesco a convincermi che un Dio benevolo e onnipotente avrebbe
creato di proposito le Ichneumonidae con l’espressa intenzione che si
alimentassero all’interno dei corpi vivi dei vermi, o che un gatto dovesse
giocare con i topi. Non credendoci, non vedo alcuna necessità nel credere che
l’ideazione dell’occhio sia stata mirata (…) Sono incline a guardare tutto come
risultante da leggi mirate, con i dettagli, vuoi buoni vuoi cattivi, lasciati
all’elaborazione di quello che noi potremmo chiamare caso”[31]. Questa sorta di
confessione avviene però dopo l’Origine: mentre scrive la sua opera
fondamentale, si può dire che la sua cornice è ancora deistica.
NOTE
[1] Di Gregorio M., Origine delle specie ed evoluzione biologica, Università de L’Aquila, p.263
[2] Darwin C., L’origine delle specie 2011, Newton Compton Editori, p. 88
[3] Boncinelli E. Perché non possiamo dirci darwinisti 2010, Rizzoli
[4] Di Gregorio M., Origine delle specie ed evoluzione biologica, Università de L’Aquila, p. 75/76
[5] La Vergata A., L’evoluzionismo, in: Filosofia, cultura cittadinanza vol. 3, La Nuova Italia, p. 207
[6] Ageno M., Le radici della biologia 1986, Feltrinelli, p. 28
[7] Pievani T., Introduzione a Darwin 2012, Laterza, p. 119
[8], p. 169
[9] http://online.scuola.zanichelli.it/LupiaSaraceni_ScienzeIntegrate-files/Zanichelli_Lupia_Saraceni_Scienze_Sintesi_UB3.pdf
[10] Darwin C., L’origine delle specie 2011, Newton Compton Editori, p. 39
[11] Pievani T., Introduzione a Darwin 2012, Laterza, p. 119
[12] La Vergata A., L’evoluzionismo, in: Filosofia, cultura cittadinanza vol. 3, La Nuova Italia, p. 208
[13] Darwin C., L’origine delle specie 2011, Newton Compton Editori, p. 245
[14] (http://online.scuola.zanichelli.it/LupiaSaraceni_ScienzeIntegrate-files/Zanichelli_Lupia_Saraceni_Scienze_Sintesi_UB3.pdf)
[15] Ibid.
[16] La Vergata A., L’evoluzionismo, in: Filosofia, cultura cittadinanza vol. 3, La Nuova Italia, p. 214
[17] Pievani T., Introduzione a Darwin 2012, Laterza, p.96
[18] Pievani T., Introduzione a Darwin 2012, Laterza, p. 95
[19] Minelli A., Darwin e il metodo scientifico, Università di Padova (http://www.unife.it/dipartimento/biologia-evoluzione/progetti/emi/39.pdf)
[20] Di Gregorio M., Origine delle specie ed evoluzione biologica, Università de L’Aquila, p.87
[21] Pievani T., Introduzione a Darwin 2012, Laterza, p. 95
[22] Boncinelli E. Perché non possiamo dirci darwinisti 2010, Rizzoli
[23] Abbondandolo A., I figli illegittimi di Darwin 2012, Nessun Dogma, p. 12
[24] Boncinelli E. Perché non possiamo dirci darwinisti 2010, Rizzoli
[25] Ayala J. Evoluzione 2012, Edizioni Dedalo, p. 67
[26] La Vergata A., L’evoluzionismo, in: Filosofia, cultura cittadinanza vol. 3, La Nuova Italia, p. 212
[27] Curtis H – Barnes N. S., Invito alla biologia 2009, Zanichelli, p. 289
[28] La Vergata A., Darwin e il caso (http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=395:darwin-e-il-caso&catid=231&Itemid=452)
[29] Ecco cosa diceva Marx in una lettera ad Engels e una a Lassalle: «...ho letto [...]il libro di Darwin sulla ‘natural selection’. Per quanto svolto grossolanamente all’inglese, ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico-naturali del nostro modo di vedere» (Marx ad Engels, 19 dicembre 1860). «Molto notevole è l’opera di Darwin, che mi fa piace re come supporto delle scienze naturali alla lotta di classe nella storia. Naturalmente bisogna accettare quella maniera rozzamente inglese di sviluppare le cose. Ma, nonostante tutti i difetti, qui non solo si dà per la prima volta il colpo mortale alla ‘teleologia’ nelle scienze naturali, ma se ne spiega il senso razionale in modo empirico» (Marx a Lassalle, 16 gennaio 1861). (http://logos-centrologosgenova.org/darwin.pdf)
[30] La Vergata A., Darwin e il caso (http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=395:darwin-e-il-caso&catid=231&Itemid=452)
[31] Ecco alcuni passaggi dell’originale in inglese: “My dear Gray (…) With respect to the theological view of the question; this is always painful to me.— I am bewildered.— I had no intention to write atheistically. But I own that I cannot see, as plainly as others do, & as I shd wish to do, evidence of design & beneficence on all sides of us. There seems to me too much misery in the world. I cannot persuade myself that a beneficent & omnipotent God would have designedly created the Ichneumonidæ with the express intention of their feeding within the living bodies of caterpillars, or that a cat should play with mice. Not believing this, I see no necessity in the belief that the eye was expressly designed. On the other hand I cannot anyhow be contented to view this wonderful universe & especially the nature of man, & to conclude that everything is the result of brute force. I am inclined to look at everything as resulting from designed laws, with the details, whether good or bad, left to the working out of what we may call chance. Not that this notionat all satisfies me. I feel most deeply that the whole subject is too profound for the human intellect. A dog might as well speculate on the mind of Newton.— Let each man hope & believe what he can.—Certainly I agree with you that my views are not at all necessarily atheistical. The lightning kills a man, whether a good one or bad one, owing to the excessively complex action of natural laws,—a child (who may turn out an idiot) is born by action of even more complex laws,—and I can see no reason, why a man, or other animal, may not have been aboriginally produced by other laws; & that all these laws may have been expressly designed by an omniscient Creator, who foresaw every future event & consequence. But the more I think the more bewildered I become; as indeed I have probably shown by this letter.” (http://disf.org/darwin-esistenza-dio-lettere)
*tratto da una tesina per un esame postlaurea di Storia del pensiero scientifico
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