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L'Ecologia profonda e il concetto di wilderness - di Mario Spinetti


                                               Desolation Wilderness Area, Usa


(articolo tratto da www.ecologiaprofonda.com ... grassetto mio - Indio)





“In ogni luogo ci vorrebbe un posto, così, lasciato incolto” (Cesare Pavese).

Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a sé stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita. Scrive Aldo Leopold (1949): “ La wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione, o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova wilderness nel vero senso della parola è impossibile. Ne consegue, allora, che ogni programma di conservazione che riguardi la Wilderness è un’azione difensiva, mediante la quale la sua degradazione può essere ridotta al minimo....
La capacità di comprendere il valore culturale della Wilderness sta divenendo in ultima analisi una questione di umiltà intellettuale. Il presuntuoso pensiero dell’uomo moderno si è distaccato dalle sue radici con la terra, e sostiene di avere già scoperto cosa è importante; è chi ciancia di imperi, politici o economici, che resterà indietro di migliaia di anni....”.
Ma vediamo ora di spiegare qual é l'essenza del “concetto di wilderness”, vediamo perché esso è da considerarsi una vera e propria filosofia da cui si genera il pensiero protezionista e, in via più generale, la concezione stessa della vita. Riportiamo integralmente le lodevoli parole di Franco Zunino fondatore dell’Associazione Italiana per la Wilderness.
“Lo sviluppo sociale in continua evoluzione sta alterando ogni angolo della nostra terra, e anche le aree veramente selvagge rimaste tali per casualità o in quanto fino ad oggi prive di interessi economici o non utilizzabili a questo scopo, vengono ormai giornalmente intaccate da sempre nuove iniziative a loro danno, senza che mai le giustificazioni economiche ad una loro alterazione siano considerate in second’ordine a quelle spirituali, definendo tali, per brevità, tutte quelle esigenze per cui ovunque nel mondo si protegge la natura.
Le poche aree senza strade e moderne costruzioni rimaste vengono considerate ‘terra di conquista’ dalla civiltà, e gli uffici preposti alla pianificazione del territorio e al suo uso vi programmano sempre nuove forme di sfruttamento anziché preservarle nel loro stato naturale come rarità ecologiche quali esse sono, e anche come Eden per i bisogni emotivi dell’individuo. Nessuno nei contesti sociali locali sembra più amare la propria terra, il paesaggio in cui è nato! Anche l’uso ricreativo dell’ambiente da parte dei cittadini si sta rivelando, specie nei Parchi Nazionali, un’ultima frontiera della conquista dell’uomo, in quanto un eccessivo uso in tal senso rischia di trasformarsi in un danno più sottile e strisciante, meno appariscente di una strada o di un residence, meno fastidioso della caccia sul piano morale, ma altrettando dannoso e deteriorante di tutto quanto di fisico e di psichico è racchiuso nella definizione di natura selvaggia, cioè di ‘Wilderness’ così come è intesa nella cultura anglosassone.
Wilderness è un termine che può suonare oscuro al profano, ma il cui significato intrinseco va ben al di là della sua letterale traduzione, esso definisce infatti anche i dettami di una filosofia specifica, che è scaturita da esigenze umane sia di godimento emotivo nel contatto con la natura selvaggia che di conservazione di quei territori naturali dove queste esigenze possono esprimersi.
Il 'Concetto di Wilderness’ altro non è che la definizione di questa filosofia; una filosofia che vede nel rapporto uomo-natura un rispetto reciproco che privilegia la natura nei casi di conflittualità di interessi; una filosofia alla cui base c’è veramente l’idea di dare corpo a patrimoni ambientali da lasciare alla posterità, investendo le nostre generazioni della loro responsabilità in questo senso, cioè di decidere oggi il limite massimo oltre il quale l’uomo e le sue suggestioni non devono più andare, per lasciare un perenne spazio alla natura e alle sue creature selvagge.
.......Dobbiamo preparare l’opinione pubblica di oggi e quella di domani a comprendere l’esigenza spirituale delle nostre e delle future generazioni di godere anche solo del fatto di sapere che esistono ancora luoghi lontani, nel senso di ampi e selvaggi; luoghi dove la natura è lasciata a sé stessa come agli albori della vita sulla terra, e con garanzie durature di una loro preservazione nel tempo che li sottragga all’evoluzione della civiltà........
Le Associazioni di protezione della natura hanno troppo spesso ignorato le esigenze puramente spirituali legate al rapporto uomo-natura, e così quegli impatti sulla natura da parte dell’uomo che, soddisfacendo bisogni puramente materiali di sviluppo sociale o di ricreazione meramente fisica, ne impediscono la loro espressione; esse hanno sottovalutato la potenziale forza distruttrice della spirale economica della nostra civiltà nelle sue sfumature più insidiose, così come quelle delle necessità dell’uomo come individuo. Non sono poche le volte che queste Associazioni hanno espresso consensi favorevoli a certe attività, troppo superficialmente credute educative o necessarie e quindi compatibili con le motivazioni della conservazione in quanto sviluppate da chi gestisce aree protette o divulgate e promosse con l’intento di migliorare il rapporto con la natura da chi in realtà mira ad indiretti interessi economici (es. campeggio, escursionismo, caccia fotografica, artifici di gestione faunistica, quando non realizzazioni di rifugi, strade e altre strutture ‘indispensabili’), che viste in un’ottica diversa sono di fatto l’embrione di guasti che minano alla base proprio quello che è il ‘Concetto di Wilderness’. Per una mancanza di previdenza corriamo il rischio di essere noi protezionisti che nei casi più delicati inneschiamo, senza potere di controllo, processi un giorno difficilmente arginabili (e la storia della conservazione insegna, per chi vuole imparare!), aiutati in questo dalla collaborazione compatta dei mass-media, per lo più favorevoli ai discorsi economici che stanno dietro alle sempre nuove giustificazioni che permettono all’’effetto uomo’ di incan crenirsi sempre più in profondità negli ambienti naturali.
Verrà un giorno in cui anche le visite ai Parchi dovranno essere programmate, e limitati saranno gli artifici per godere della natura con le immancabili facilitazioni, oggi più che mai in auge (e dietro ai quali sta sempre la spirale economica): di questo passo banalizzeremo anche i luoghi più selvaggi, remoti ed impervi della terra!
Certe aree naturali vanno salvate solo perché hanno diritto di continuare a perdurare nel tempo così come sono giunte a noi, modificate solo dalla lenta evoluzione delle forze della natura o da quelle primitive dell’uomo, e quindi non perché siano ‘usate’ dall’uomo di oggi come centri di produzione economica o di sfogo ricreativo, cioè in senso materiale stretto. Esse devono esistere invece per loro stesse; la natura va salvata in queste aree più selvagge solo per la fauna e per la flora, che vi si devono sviluppare in completa armonia. In questi luoghi l’uomo deve porsi dei limiti precisi oltre i quali di principio non permettere più ogni ulteriore e pur minimo intervento modificatore o realizzazioni artificiose, e deve avere poi la forza e la volontà di tirarsi indietro anche come visitatore non appena la sua presenza tende a modificarne lo stato fisico, o anche quello psichico del visitatore stesso, che deve sempre godervi le sensazioni di un rapporto di solitudine con la natura selvaggia.
Certo, questa è una scelta difficile, ma è l’unica seria alternativa da opporre alla paurosa antropizzazione del paesaggio che quotidianamente ci circonda e alla vandalizzazione degli ambienti naturali che facciamo quando ci trasformiamo in turisti estivi o domenicali........è giunto il momento di fare questa scelta di ‘utilizzo-non utilizzo’ per le zone più selvagge.......Se non lo faremo oggi per mancanza di coraggio politico sarà troppo tardi per le generazioni future. Qualsiasi altra decisione volessimo prendere a loro salvaguardia fisica o anche dei valori spirituali che esse, così, racchiudono e rappresentano, sarà un palliativo che servirà solo ad evitare alle nostre generazioni la responsabilità di una scelta che si sa difficile e impopolare.....”
Thoreau osservò che “nella wilderness è la salvezza del mondo”, e si disse convinto che una natura selvaggia aiuta a conoscere meglio noi stessi, a migliorarci e a migliorare la società in cui viviamo. Il solo pensiero che un’area possa rimanere wilderness, ossia selvaggia “forever”, affrancandosi dalla presenza dell’uomo conquistatore e assoggettatore, colpisce profondamente la sensibilità di una persona che abbia una propria vita spirituale. Come abbiamo già sottolineato, il concetto di Widerness non riguarda solo lo spazio fisico di un territorio ma concerne anche l’emotività interiore da cui l’uomo, solo di fronte alla natura selvaggia, può essere preso. La filosofia wilderness può quindi riassumersi in una frase “ La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo”.
Scrive Salvatore Veca (1986): “ la natura non è una pseudo-persona verso cui gli esseri umani siano responsabili: lo siamo nei suoi confronti per il semplice fatto che le nostre azioni causano alterazioni della biosfera e non possiamo più, o meglio, non dobbiamo più essere i predatori della biosfera. Ovviamente, noi facciamo parte della natura, senza disporre di un controllo totale di essa (non siamo responsabili della sua esistenza), e tuttavia differiamo in alcuni aspetti essenziali da altri elementi costituenti della natura. A differenza delle altre specie, sembra che noi possiamo cambiare - migliorare o peggiorare - gli effetti delle nostre azioni sulla natura: questa responsabilità causale genera una responsabilità morale....”.
A corollario di quanto osservato in merito alla protezione della natura secondo la filosofia wilderness, ci sia consentito di formulare una riflessione di tipo provocatorio: se qualcuno proponesse di distruggere una grande opera d’arte, un museo o una preziosa chiesa romanica verrebbe certamente considerato un folle, ma paradossalmente non è considerato folle chi decide di distruggere un bosco secolare per far passare un'autostrada o per realizzare un impianto sportivo d'alta montagna, con tutti i danni ambientali che quelle opere comportano.
All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura perché è l’uomo che la distrugge ed è suo compito quindi tutelarla, a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di una semplice componente del materialismo dialettico, a cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l'ambiente naturale: solo questo potrebbe essere in chiave ironica l'essenza della filosofia antropocentrica.
Gary Snyder (1992) annota magistralmente: “Thoreau dice: ‘Give me a wildness no civilization can endure’ (datemi un mondo selvatico che nessuna civiltà possa tollerare). Una cosa del genere non è difficile da concepire. Più difficile è immaginare una civiltà che il mondo selvatico possa tollerare. Eppure questo è precisamente quello che dobbiamo cercare di fare. Wildness non significa semplicemente conservare il mondo; wildness è il mondo. Da lungo tempo le civiltà orientali e occidentali sono in rotta di collisione con la natura selvatica e oggi in particolare i paesi industrializzati hanno il dissennato potere di distruggere non solo singole creature, ma intere specie, interi processi della terra. Abbiamo bisogno di una civiltà capace di convivere pienamente e creativamente con il mondo selvatico, con l’essere selvaggio..... La wilderness è un luogo dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso, dove una varietà di esseri, viventi e non, si manifestano secondo il loro ordine interno..... Wilderness vuol dire totalità, interezza. Gli esseri umani emergono da quella totalità; e l’idea di riaffermare la nostra partecipazione all’assemblea di tutti gli esseri non è affatto un pensiero regressivo”.
Scrive ancora Zunino: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.
Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore....".
Scrive ancora Zunino e completa il discorso: "Il Wilderness Concept è quella ipotetica barriera invisibile ma invalicabile contro le pressioni delle esigenze economiche, e quindi di sviluppo, della società umana, posta dall'uomo stesso a difesa della natura, o meglio a garanzia della sua perpetuità. In pratica una premeditata rinuncia dei diritti dell'uomo per garantire quelli della natura. Questa barriera è stata codificata per la prima volta al mondo nel 1964 con una legge speciale del Congresso americano. I territori delimitati da questa barriera legislativa sono per sempre e per principio tutelati contro ogni progetto di modifica al loro stato ambientale.
Oggi è il momento di cominciare seriamente a batterci affinché in tutto il mondo venga applicato questo concetto conservazionistico.
Salvare il salvabile delle ultime terre selvagge della Terra è una priorità indifferibile; abbiamo troppi esempi di luoghi selvaggi andati persi nel volgere di pochi anni perché ritenuti enormi o inattaccabili per assenza o scarsità di risorse o per la difficoltà di operarvi imprese redditizie. E' invece bastato poco perché il lento erodere di terre ai grandi spazi selvaggi si sia evoluto con un crescendo esponenziale vertiginoso (l'Amazzonia è l'esempio più attuale) in conseguenza a sviluppi socio-economici impensabili solo pochi anni fa; e così è stato per le risorse naturali scoperte in luoghi impensabili, risorse di qualità ed in quantità, la cui richiesta ha raggiunto i vertici sui mercati mondiali (petrolio, uranio, gas, ecc.): e qui insegna l'Antartide, ritenuto una landa sterile e desolata e ora scoperto come inesauribile miniera di ricchezze per il mondo intero! E' così pure i luoghi ritenuti inavvicinabili per le difficoltà tecniche di aprirvi vie di penetrazione: le scienze ingegneristiche nell'ultimo decennio hanno praticamente risolto ogni problema tecnico: ormai è solo questione di soldi. Se si vuole fare arrivare la civiltà mediante strade, dighe e costruzioni d'ogni natura non c'è più barriera naturale che riesca a fermare o contenere la volontà colonizzatrice dell'uomo.
Ad un tale stato di cose, tutte basate sul profitto, solo una corrente di pensiero può opporsi con efficacia. La volontà di distruggere colonizzando o sfruttando si può combattere solo con una volontà opposta: quella di conservare. Nessuna convinzione utilitaristica potrà mai prendere il posto a quella esigenza interiore e morale di conservarci qualcosa che amiamo perché sentiamo intimamente nostro come l'angolo preferito dalla nostra casa. Fino a che non ci convinceremo che conservare un luogo o un territorio è come far sì che gli estranei rispettino le nostre proprietà materiali (chi non si ribella a chi ci imbratta la casa o l'automobile?), non otterremo nessuna legge, nessun provvedimento duraturo a difesa dell'ambiente: accetteremo sempre compromessi, compromessi che considereremmo assolutamente inaccettabili se dovessero riguardare le nostre proprietà materiali. E questo non è giusto. Vuol dire che non abbiamo ancora raggiunto una coscienza sociale che ci faccia sentire nostro ciò che è di tutti. Ovverosia, continueremo a considerare ciò che è di tutti come se non fosse di nessuno o comunque mai nostro.
E' per questi motivi che piuttosto che vincoli seri e duraturi continuiamo ogni giorno a chiedere alle forze politiche la istituzione di nuovi Parchi ed aree protette solo per la soddisfazione di stampigliare queste definizioni su aree circoscritte cartograficamente ma che ben poco hanno di Parco o di Riserva della e per la natura, accettando labili vincoli pur di ottenere quelle semplici espressioni geografiche che, appunto, sono divenuti i Parchi italiani, siano essi nazionali o regionali. La 'Parcomania' affibiataci dai cacciatori esiste, non è una definizione per deridere il movimento ambientalista!
I Parchi Regionali istituiti negli ultimi anni, e così le molte Riserve Naturali regionali e statali, nonché i Parchi Nazionali progettati, sono basati su vincoli così poco vincolanti che al di là del solito scontato ed a volte inutile divieto di caccia, ben poco difendono dei patrimoni ambientali delimitati quali 'aree protette'.
Corriamo il rischio che come già in passato è avvenuto per tutti i Parchi nazionali esistenti, si vengano a perdere i valori ambientali e paesaggistici migliori proprio dopo che essi sono o saranno stati, teoricamente, sottoposti a tutela! Pensiamo quali grandi aree di natura selvaggia erano il Gran Paradiso o l'Abruzzo o lo Stelvio all'atto della loro designazione in Parchi Nazionali: 60.000, 30.000 e 70.000 ettari di Wilderness! Ora di quella Wilderness è rimasta ben poca cosa.
Oggi, quali Parchi o altre Riserve garantiscono che nessuna opera stradale o rifugio (per non parlare di peggio!) venga realizzata nei loro confini dopo la data della loro designazione? Pochi, se non nessuno in senso rigido.
Ecco quindi la n
ecessità di una nuova corrente di pensiero conservazionistica in merito a ciò. Una corrente che scopra e faccia proprio il Wilderness Concept. Non è una 'Parcomania'. Bensì una scelta oggettiva dei luoghi meritevoli di vera tutela, da scindere da quelli di scarso valore ambientale o, peggio, con valori solo socio-economici per i quali possono anche andar bene gli pseudo vincoli di oggi. Una scelta, quindi, non tanto dei luoghi da tutelare per essere sfruttati quanto dei luoghi da conservare veramente, per necessità biologiche e psicologiche; da difendere come difendiamo i nostri giardini, per abbellire i quali spendiamo danaro al solo fine indiscusso di crearci qualcosa di bello da guardare e da godere. Solo prendendo atto e coscienza di un tale assioma potremo batterci al fine di ottenere anche da noi delle norme vincolistiche ispirate al Concetto di Wilderness, norme da applicarsi nell'ambito di tutte le aree protette esistenti e da prevedersi in quelle di futura istituzione, almeno a difesa delle ultime aree selvagge rimaste nel territorio italiano. E solo così potremo considerare la loro difesa nostro diritto indiscutibile, al pari del diritto alla difesa della nostra casa, delle nostre proprietà fondiarie, dei nostri beni materiali in genere.
Forever wild può significare anche per sempre nostro!”.
John Muir in una lettera al fratello scrisse: “Vendimi 20 ettari del prato vicino al lago e tienilo recintato in modo che non vi possa penetrare il bestiame.... voglio che resti incalpestato per la salvezza delle felci e dei fiori e, anche se non potrò rivederlo mai più, la bellezza dei suoi gigli e delle sue orchidee sarà tanto presente alla mia mente che ne gioirò soltanto immaginandomeli”.
La nostra mente omai atrofizzata in uno stile di vita artificiale, illusorio e superficiale, non ci consente di poter concepire, anche per un solo istante, l’esistenza di una natura che non sia stata manipolata e trasformata dall’uomo. Il nostro pensiero di uomini “civili” non include più qualcosa che non sia umano o per lo meno umanizzato. Ecco perché apprezziamo solo le cose che evidenziano in qualche modo una “presenza” umana, anche minima, ma sempre umana (un sentiero selvaggio, non battuto e non marcato, viene considerato “abbandonato”, impraticabile, non confortevole). Tutto deve essere sempre sottomesso in qualche modo all’operato dell’uomo. Si spera che le ultime aree della terra che ancora sono immuni dal “morbo” umano, rimangano tali per sempre.
“Quello che ho cercato di dire è che la conservazione del mondo è nella natura selvaggia... La via è fatta di spazi selvaggi. La cosa più viva e la più selvaggia. Non ancora sottomessa all’uomo, la sua presenza la rinvogorisce.... Quando voglio ri-crearmi, cerco il bosco più intricato, più fitto e più esteso e, per l’abitante della città, il più tetro e paludoso. Vi entro come in un luogo sacro, un Sanctum sanctorum. Lì è la forza, il midollo, della Natura. In breve, tutte le cose buone sono selvagge e libere” ( H.D. Thoreau).
John Mitchell in un suo articolo (1998) ci ricorda, a conferma di quanto detto pocànzi che: “Quando si parla di wilderness non si intende esclusivamente un luogo fisico, e neppure un sistema di gestione...... Wilderness è anche uno stato mentale. Un’idea a un tempo inafferrabile e terrena: personale quanto il rischio, la libertà, la solitudine e il riposo spirituale; concreta quanto la terra vivente e le acque che ne disegnano il profilo”. Aggiunge poi, citando un suo interlocutore Charles Little che: “La terra è una comunità, insegnava Leopold. Le sue acque, il suolo, le piante, gli animali, compongono un insieme armonico non per il nostro beneficio, bensì per il loro”.
E’ bene completare ed integrare il discorso con le parole del già più volte citato Aldo Leopold, cui si deve la designazione della prima Wilderness Area del mondo, ed universalmente noto per i suoi trattati sull’”Etica della Terra”. Dall’opera A Sand County Almanac (1949/1968, traduzione di F. Zunino): “La Wilderness è il materiale grezzo dal quale l’uomo ha manipolato il manufatto chiamato civiltà.
La Wilderness non è mai stata un materiale grezzo omogeneo. Era molto varia e i manufatti risultati sono, pertanto, molto differenti. Queste differenze nel prodotto finale noi le conosciamo come culture. La ricca diversità nella selvatichezza delle quali hanno preso vita.
Per la prima volta nella storia della specie umana, due cambiamenti sono incombenti. Uno è l’esaurirsi della Wilderness nella porzione del globo più abitata. L’altro è l’ibridazione delle culture del mondo attraverso i moderni mezzi di trasporto e l’industrializzazione. Nessuno dei due può essere prevenuto; o forse potrebbe anche esserlo, visto che, da alcuni insignificanti miglioramenti dei cambiamenti che incombono, certi valori possono essere preservati prima che siano persi.
Per il fabbro accaldato nel lavoro, il ferro sulla sua incudine è un avversario da conquistare. Così era la Wilderness, un avversario per i pionieri. Ma per il fabbro in riposo, capace per un momento di gettare uno sguardo filosofico nel suo mondo, lo stesso ferro grezzo è qualcosa da amare e custodire, perché dà determinazione e significato alla sua vita. Questo significa la preservazione di alcuni rimasugli di Wilderness come pezzi di museo, per il piacere di quelli che potrebbero un giorno desiderare vederli, viverli, o studiarvi le origini della loro eredità culturale”.

Mario Spinetti


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