
Devil's Tower, un luogo sacro ai Lakota, nelle Black Hills.
Sotto: 1.Charles Hestman, (Ohiyesa), grande voce del popolo pellerossa 2. Il Sacred Circle interpretato da un'artista contemporanea, Bev Doolittle 3. Pini loricati su Serra Crispo - foto by Indio 4. Aldo Leopold, uno dei padri dell'ambientalismo 5. Sigurd Olson.
L'intervento all'Onu di Franco Zunino, uno dei suoi testi migliori, incentrato sul legame uomo-natura e sull'importanza che la wilderness riveste per l'accrescimento interiore dell'individuo.
Indio
fonte: http://www.wilderness.it/
WILDERNESS E SPIRITUALITA'
L’Uomo quale armonica parte inseparabile del mondo naturale e il mondo naturale come luogo per la sua soddisfazione spirituale.
Intervento di FRANCO ZUNINO
Sede dell’ONU – Ginevra 9 Giugno 2009
Il Concetto di Wilderness ha le sue basi filosofiche nel pensiero di uomini quali Thoreau ed Emerson, che per primi trasformarono in una filosofia quello che è il sentimento che spinge l’uomo a cercare nella Natura delle soddisfazioni non solo materiali, ma anche spirituali, seppure abbia scoperto l’esigenza di quelle spirituali nel praticare quelle materiali. Ma queste basi nascevano però dall’esperienza e conoscenza che quei filosofi avevano del mondo ancora in gran parte primitivo in cui vivevano, quell’America allora agli albori della civiltà e della democrazia e da poco colonizzata, dove lo scontro tra civiltà era solo agli inizi.
La spiritualità e la solitudine che Thoreau andò a cercare quando visse la sua esperienza di Walden,che poi lo rese famoso (dopo avere scritto e pubblicato l’omonimo saggio) (1), non era dissimile da quella delle genti native d’America; diverso era solo il substrato culturale.
Ecco, quindi, che l’esempio più noto della filosofia Wilderness diffuso nella cultura occidentale è finito per divenire quello dei popoli pellerossa, che i colonizzatori bianchi scoprirono essere legati in modo inscindibile al mondo naturale selvaggio in cui vivevano e che loro scoprivano per la prima volta; quella selvaggità che definirono con la parola “wilderness”, ma che, per quei popoli che la wilderness vivevano, essa non aveva alcun senso, perché la wilderness dei “bianchi” era il loro mondo, il loro essere quotidiano, e, per loro, forse, “selvaggi” erano proprio i coloni che quel mondo non rispettavano e che volevano possedere materialmente, come poi, purtroppo possedettero!

Ohiyesa dimostra così ancora oggi a noi, gente di tutto il mondo e di tutte le epoche successive, con messaggio che lui non sapeva essere tale, la grandezza della spiritualità del suo popolo, il sentirsi parte integrante di tutto ciò che li circondava e che li rendeva felici anche in uno stato che noi definiamo, ancora oggi, di indigenza, ma che tale non era per loro, che proprio nell’ignoranza culturale in cui vivevano (secondo i nostri criteri) avevano scoperto il segreto della felicità, invano da noi ricercato attraverso il danaro e le cose materiali.
La civiltà occidentale scoprì invece il valore spirituale della natura selvaggia, della wilderness, molto più tardi; la scoprì quando alcuni cominciarono ad accorgersi che la stavano perdendo per sempre, e con essa tutta la grande risorsa di biodiversità che la wilderness conteneva.
«La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo. Fa parte dell’eterna ricerca della verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e del suo creatore.» E’ questa la più bella definizione di quella che oggi in tanti definiscono filosofia Wilderness, una definizione che accomuna tutte le religioni e tutti i popoli del mondo. Essa è stata coniata da un anonimo funzionario del Servizio Forestale degli Stati Uniti d’America nel presentare una pubblicazione che illustrava quella che loro definiscono la “risorsa di wilderness”; cioè il complesso delle aree che in quel paese sono state e continuano ad essere preservate per il loro valore di per sé. Quella pubblicazione aveva per titolo “La ricerca della solitudine”, un bisogno interiore che la moderna civiltà spesso aborrisce, ma di cui l’uomo ha bisogno per ricreare lo spirito “ubriacato” dalle caotiche, inquinate e stressanti metropoli.
Quando nel 1977, in Sud Africa, si tenne il primo Congresso Mondiale sulla Wilderness, organizzato da Ian Player, il noto leader mondiale di questo movimento, l’allora capo del popolo Zulu Mangosuthu Buthelezi, oggi Presidente dello Stato del Kwa Zulu, ebbe a dire, nella sua prolusione al Congresso: «Credo che l’esperienza di wilderness sia necessaria allo sviluppo di tutti. Nella wilderness le barriere cadono e noi possiamo vederci l’un l’altro per quello che siamo e valiamo veramente. Se un numero sempre più numeroso di leader del mondo potesse incontrarsi nella tranquillità della wilderness, io credo che si svilupperebbe una maggiore comprensione tra i popoli.»

Una società giusta non deve solo stabilire quanto e dove sviluppare, ma anche quanto e dove fermare lo sviluppo. Le aree di wilderness sono questi luoghi. «Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biologica. E’ invece sbagliata quando tende all’inverso», scrisse Aldo Leopold.
Nel mio Paese, ma anche forse in Europa, sono stato il primo a cercare di diffondere questa filosofia affatto antropocentrica, ma il cui risultato pratico senza l’uomo neppure avrebbe senso. Lo feci affascinato da quel concetto del “forever wild” che assicura ad alcuni luoghi una perpetuità di conservazione che nessuna legge al mondo ha assicurato come ha fatto il Wilderness Act americano.
Le idee di quelli che io oggi definisco i filosofi-pratici del conservazionismo americano portarono a questa legge. Se Aldo Leopold («La wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova wilderness nel vero senso della parola è impossibile») e Robert Marshall («C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della Terra. Questa speranza sta nell’organizzazione della gente più sensibile ai valori dello spirito, affinché combatta per la libera continuità della natura selvaggia») furono quelli che mi spinsero a fondare un’associazione per la Wilderness nel mio Paese, affinché si impegnasse per la designazione di quelle che oggi sono le prime vere Aree Wilderness del vecchio continente, e fu nel pensiero del più noto scrittore americano di natura selvaggia e delle emozioni che essa desta nell’animo umano, Sigurd Olson, che infine io ho trovato me stesso, le mie idee, la mia visione del mondo naturale, un mondo di cui avevo ed ho bisogno e di cui avrò bisogno spiritualmente anche il giorno che non potrò più viverlo. E ciò evidenzia a me stesso che alla conclusione della nostra vita i valori veri saranno per noi solo quelli spirituali che ci riportano al punto di partenza della vita. Alla Terra. Così egli ha scritto:

Questa è la Wilderness. Questo è il senso della sua filosofia, una filosofia che ci riporta ad una spiritualità primitiva ma allo stesso modo rimasta immutata nell’animo dell’uomo. Essa non deve però essere avulsa dal suo concetto di conservazione. Perché “forever wild” è l’unico vero principio di conservazione che fa grande questa filosofia!
(1) Walden ovvero vita nei boschi, edito in Italia da Rizzoli.
(2) Il testo integrale da cui è stato tratto questo passo si può leggere in Wilderness/Documenti N. 2/2008
Commenti
Posta un commento