Casolari dell'Herbetet, Parco nazionale del Gran Paradiso (fonte: http://camminando.otforum.it/index.php/escursionismo/23-val-cogne-gran-paradiso/18-casolari-dellherbetet-2440-m-e)
L'articolo che qui si ripropone fu pubblicato originariamente per la Rivista del Club Alpino Italiano nel 1979. Scritto da Franco Zunino (oggi Segretario Generele dell'Associazione italiana Wilderness), che nel Parco Nazionale del Gran Paradiso era stato guardiaparco, intenso e bello anche dal punto di vista letterario, questo scritto induceva ad una riflessione sulla simbiosi che esisteva in passato tra la cultura contadina e la natura selvaggia delle montagne. Il moderno sviluppo industriale e l'avvento della società di massa avrebbero trasformato tante aree montane in meri luoghi di svago per il turista cittadino. Baite e villaggi di montagna sarebbero state sostituite da veri e propri centri urbani e nel cuore della natura selvaggia sarebbero sorti alberghi, strade, funivie e skilift... L'appello di franco Zunino richiamava alla memoria invece quelli che erano gli antichi montanari, quelli che amavano (magari senza mai dirlo) quelle valli e quei monti, percorse solo da sentieri e dove "le baite, le tante baite dei pastori che punteggiavano i pascoli non erano altro che rocce, sassi squadrati, ma rivestiti anch'essi di licheni e fusi nel paesaggio". L'appello di Zunino, che dava anche il titolo all'articolo, "Siamo noi 'les montagnards'!" era rivolto a tutti i conservazionisti sinceri che condividevano con l'antica cultura contadina la ricerca di un rapporto armonico con la natura, contro la moderna deriva "sviluppista", che soggiogava la montagna alle esigenze della cultura consumistica delle città. Se anche i moderni montanari si piegavano a questo ricatto allora era compito di ogni sincero conservazionista lottare per la difesa di quelle montagne e della "Istituzione" del Parco Nazionale. Sono i conservazionisti allora "les montagnards", "siamo noi i montanari, siamo noi i veri eredi di quelle genti. Siamo noi i soli che ancora apprezzano il valore di quell'eredità ambientale...".
Indio
Sessant' anni or sono un re ci donò i suoi possedimenti e i suoi diritti di caccia su alcune montagne del suo regno e con esse gli animali che le abitavano, i fiori, gli alberi, le rocce, i limpidi ruscelli.
Ci donò il perenne diritto alla vita di un altro re - lo stambecco - e del suo incomparabile reame, affinché là il tempo continuasse il suo ciclo immortale, là ogni giorno il soffio del vento fosse lo stesso di cento anni prima e il suono di acque profonde nei canaloni non avesse mai fine.
Un dono fatto a noi, allora sui sudditi.
A noi come italiani, gente di uno stesso popolo e di una stessa nazione. Non fu un dono ai piemontesi o ai valdostani, i soli che allora conoscevano quell'eredità di cui noi tutti venivamo in possesso, ma un dono fatto a tutto un popolo, anzi all'umanità intera.
Quel dono ci fu offerto a una precisa condizione: "per il caso che lo Stato credesse di costituire presso il gruppo del Gran Paradiso, nelle Alpi Graie, un Parco nazionale". E fu la prima pietra del primo Parco nazionale italiano.
Voluto dal governo e dal Parlamento democratico, poco avanti la parentesi fascista e voluto una seconda volta dal governo e dal Parlamento democratico subito dopo.
Lassù quella vita intensa legata alle rocce non aveva mai subito mutamenti violenti per mano dell'uomo: le baite, le tante baite dei pastori che ne punteggiavano i pascoli non erano altro che rocce, sassi squadrati, ma rivestiti anch'essi di licheni e fusi nel paesaggio.
L'eco dei campanacci di mucche pascenti era armonia che si univa ad armonia e l'alternarsi dell'uso dei pascoli per gli animali domestici e per quelli selvatici era dato dallo scandire della luce e della notte. Allora anche il chiamare di un un uomo era armonia in quelle solitudini. Oggi non più. Alcune strade sono avanzate con i loro orrendi sfregi, quasi marchi di proprietà su quei monti e i pascoli si sono riempiti di gente venuta da lontano.
Sfregi sono anche le funivie e gli skilift, gli alberghi, i paravalanghe metallici o a gradoni fatti con la ruspa, le dighe, tutte costruzioni volute senza amore per la propria terra anche da coloro che si credono ancora "montagnards" solo perché quei monti al catasto risultano loro, ma che non conoscono e non amano più, avendo dimenticato i gli antichi sentieri e i siti delle baite, in rovina per l'abbandono.
Dove sono quei montanari che amavano i loro pascoli come solo si ama la terra natia, quella terra che ci ha visti giovani e che ha accolto le ossa dei nostri padri?
I montanari che conoscevano nell'intimo la montagna e che ne amavano le forme e i colori come le pareti della propria casa?
Sono forse quelli che affermano: "Il parco è nostro", o "Giù le mani dal nostro Parco", o "Gran Paradis enefer des montagnards"?
No! Oggi siamo noi i montanari, siamo noi i veri eredi di quelle genti.
Siamo noi i soli che ancora apprezzano il valore di quell'eredità ambientale che fu alla base della nascita del Parco.
Siamo noi i veri proprietari delle vecchie donazioni reali di Bocconère e di Leviola, del Nequedè e del Sort.
Siamo noi "les mntagnards", che torniamo lassù ogni stagione ad alpeggiare nella luce dei ghiacciai, che ci dissetiamo a quei ruscelli immutati, che calpestiamo gli stessi antichi sentieri e che ci riempiamo gli occhi della stessa bellezza e degli stessi colori e le orecchie del suono del rotolare di sassi e del gridare di marmotte.
Che godiamo della linea frastagliata delle creste, che abbassiamo lo sguardo al tremulo fiore del genepì sulle instabili morene o all'anemone vellutato nel freddo albore dei pascoli.
Siamo noi "les montagnards".
Siamo noi che vibriamo d'estasi al suono di nomi antichi come il tempo, nomi che ci sussurriamo esaltandoci nei ricordi di giorni trascorsi nell'aria pura e nella luce del sole, là dove essi indicano un pascolo, un monte, una baita: Peradzà, Bardoney, Valmiana, Lauson, Herbetet, Nomenon, Arolla, Moncorvé, Lavassey, Meyes, Entrelor, Orvielles, Bioula, Chamoussière, Chaussettaz, Vaudala, Nivolet, Ciamosseretto, Noaschetta, Valsoera, Ciardonei, Torre di Lavina, Rosa dei Banchi...
E tanti altri luoghi, che oggi si vorrebbe violare per frivolo divertimento di chi li considera solo come un diversivo alla noia, o scenari per una breve parentesi di vita; e che si vorrebbe svendere per soddisfare la futile esigenza di una seconda casa.
Questi uomini dimenticano che i loro padri li amavano così come erano allora, così come noi li vogliamo, così come noi li sapremo conservare, nell'integrità delle linee del paesaggio e dei suoni della natura. Non violati da strade, non imbrigliati da funivie e skilift, non sfregiati da paravalanghe metallici; così essi li amavano, così li amiamo noi.
Quelle mani che hanno vergato lungo la Valsavaranche, le valli di Rhemes e di Cogne scritte che violentano i loro monti già col pensiero, non sono più mani di "montagnards".
Sono di altra gente.
Siamo noi, i conservazionisti di tutto il mondo, che prendiamo il loro posto: tutti quelli che spenderanno almeno qualche parola per difendere questa terra dalla violenza di eredi che non sanno apprezzare i loro padri, saranno i veri "montagnards". Queste montagne appartengono in spirito anche a noi, col diritto di chi le ama!
Franco Zunino (ex guardia del Parco Nazionale del Gran Paradiso, Segretario Generale Associazione Italiana Wilderness)
nella foto Franco Zunino (su gentile concessione)
Commenti
Posta un commento