“Natura e cultura sui sentieri dei briganti nel Parco
Nazionale del Pollino” II Edizione
L’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”,
ripercorrendo i sentieri del Parco nazionale del Pollino percorsi dai briganti
fra il 1860 e il 1865, non vuole mettere in discussione l’unità e l’esistenza
dello Stato nazionale, ma piuttosto continuare una riflessione sul modo in cui
quell’unità si è realizzata e sulle conseguenze che ne sono risultate e ne
risultano per l’economia e la società del sud del nostro Paese.
Programma dell’iniziativa:
·
lunedì 12 agosto ore 15 ritrovo dei partecipanti
a San Lorenzo Bellizzi, Rione Sgrotto, Piazza Aldo Moro. Transfert in pullman
al Santuario della Madonna del Pollino, nel territorio di San Severino Lucano.
Cena libera e pernottamento in rifugio o tenda.
·
Martedì 13 agosto: ore 6 colazione, ore 7
partenza del gruppo, guidato da Antonio Larocca, verso la prima tappa, alla
Falconara.
·
Mercoledì 14 agosto: dopo la prima colazione,
ore 6, il gruppo proseguirà verso la seconda tappa, la Maddalena, attraverso la
Scala di Barile.
·
Giovedì 15 agosto: ore 6 prima colazione, ore 7
partenza verso la destinazione finale, nei pressi del villaggio
calabro-albanese di Civita, da dove i partecipanti saranno trasferiti in
pullman a San Lorenzo Bellizzi. Cena, musica, pernottamento in tenda.
·
Venerdì 16 agosto: in mattinata, escursioni e
iniziative varie. Nel pomeriggio e in serata, animazioni e dibattito in piazza
sul plebiscito per l’unione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia.
Durante ognuna delle tre tappe saranno effettuate soste
lungo il percorso e sarà consumato un pranzo al sacco. L’arrivo è previsto nel
tardo pomeriggio. La sera, montate le tende, ci sarà la cena, un dibattito, la
musica.
Modalità di partecipazione
Per la partecipazione all’iniziativa l’associazione
organizzatrice richiede 150 euro, che comprendono la guida lungo i sentieri del
Parco, tre colazioni, tre pranzi al sacco, tre cene, i trasferimenti in
pullman, l’organizzazione dei bivacchi, il trasporto delle vettovaglie, delle
tende, delle persone impossibilitate a partecipare alla marcia ma interessate
al resto del programma, degli strumenti, la preparazione dei pasti, la musica,
le escursioni. La data limite per iscriversi è il 5 agosto 2013. Ogni
partecipante dovrà essere munito di normale abbigliamento trekking e di
materiale per il pernottamento. Chi non dispone di tenda usufruirà di quelle
fornite dall’associazione. Saranno accettate e confermate le prime 50
iscrizioni che, unitamente ad un anticipo di 50 euro, dovranno pervenire
all’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi” tramite bonifico (codice
IBAN IT16 J076 0116 2000 0000 5054 950) o sul CC n°5054950 intestato
all’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”, Via Adua n°51 – 87070 SAN
LORENZO BELLIZZI (COSENZA) specificando la causale “Partecipazione a Natura e
cultura. Tre giorni sui sentieri dei briganti nel Parco Nazionale del Pollino.
II Edizione” entro e non oltre il 5 agosto 2013. Ricevuta dell’avvenuto
versamento dovrà essere inviata via e.mail a iragazzidisanlorenzobellizzi@gmail.com.
L’iniziativa sarà segnalata sul sito dell’Associazione www.iragazzidisanlorenzobellizzi.org
e su Facebook. Per ogni ulteriore
informazione, rivolgersi a Enzo Agrelli, tel. cell. 3453429896 TIM, oppure
3936728827 VODAPHONE.
Il presidente dell’associazione
“I
ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”
San Lorenzo Bellizzi
NELLA TERRA DI MARSILIA (tratto da: www.marsilia.eu)
Un viaggio nella Valle
del Raganello e nelle sue contigue terre
(Parco Nazionale del Pollino)
In ogni racconto può esserci una storia d‘amore.
In questo vi è la mia storia d‘amore
con la mia terra d’origine.
Vi è un luogo nella Valle del Raganello (1) che la
gente del posto chiama Jacca i varìle
(Spaccatura dei Barili) (2). Qui è ubicata una grotta che fu scelta come dimora dalla
bellissima Marsilia (3),
definita dalla cultura cattolica femminile “malafemmina“ ossia donna di facili
costumi, e per questo invisa al gentil sesso. è
però anche custode, in quella sua grotta, d’inestimabili ricchezze e tesori, in primis la famosa chioccia con i sette pulcini tutti d‘oro massiccio (1)
datale in consegna dal capo brigante Antonio Franco (2).
Secondo il mio punto di vista, Marsilia, come la più famosa Circe e molti altri simili personaggi (3), è invece un‘ammaliante e seducente
creatura. Di conseguenza chi la incontra se ne innamora
pazzamente, sedotto dai suoi poteri che sono
inoltre rafforzati dai così detti àrive du scùerde (alberi della dimenticanza), nel cui bosco Marsilia può apparire, e che vengono
usati per far dimenticare agli uomini tutte le monotonie della vita quotidiana
e l’eccessivo materialismo, rammentandoci nello stesso tempo che i veri valori,
quindi gli effettivi tesori, sono l‘ambiente naturale e, soprattutto, l‘amore
in tutti i sensi e verso ogni cosa.
Alcuni identificano questi
alberi con i pini loricati, similmente seducenti e magnetici e certamente non
sbagliano. Altri li identificano con gli alberi in genere e in modo particolare
con quelli che crescono in maniera incredibile sulle imponenti pareti
strapiombanti delle timpe della valle e che contornano, come per
nasconderlo, l’Antro di Marsilia (4).
A me piace identificarli nei pini loricati che crescono nella verticale e
impressionante parete di mezzogiorno di Timpa
San Lorenzo (4),
non a caso posti quasi dirimpetto alla grotta e quelli che svettano, poco più lontani, imponenti e maestosi,
sulle vette più alte del Pollino (5).
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Identifico la Terra di Marsilia (6) con il cuore orientale dei Monti del Pollino (7), nella
cui parte sommitale s’innalzano le alte vette del Dolcedorme (8), delle Ciavole
e di Crispo (9) e centralmente s’inabissa la
spettacolare Gola del Raganello (10). Tutto
attorno, oltre lo spartiacque che delimita lo stretto e lungo bacino idrico del
Raganello, una serie di altrettanto interessanti
territori le fa da cornice.
Di là oltre le vette più
elevate, verso ponente, si sviluppa la parte occidentale del cuore dei monti
del Pollino, vasta, boscosa, selvaggia
e bellissima. Da settentrione a oriente, a cavallo fra le regioni Calabria e Basilicata, è presente l’alta Valle
del Sarmento (11),
il Monte Sparviere (con le sue valli del Saraceno e del Satanasso)
(12) e
poco più a sud il Monte Sellaro (13). Infine
a mezzogiorno, a mo’ di grande verticale muraglione, s’inerpica, verso la Terra di Marsilia, l’Alta Valle dell’Ejano culminante
con il Monte Manfriana, che delimita
nettamente l’idrografia (14). Tutti territori che da qualche decennio sono stati inseriti,
a ragione, nel Parco Nazionale del
Pollino (5).
Nonostante la vicinanza al Mare Ionio (15), si tratta di un territorio
particolarmente aspro e montuoso, ricco di boschi, di una flora e fauna particolare
(6), torrenti, fiumare; con
abbondante acqua sorgentizia, imponenti e impressionanti pareti e picchi
rocciosi, le cosiddette “timpe” e grandi grotte, alcune profonde quasi 700 m. Ricchissimo di sole e
luminosità, il suo territorio è compreso fra i 300 m s.l.m. del letto delle
fiumare e i 2200 m
e oltre delle vette più elevate. I terreni sono in prevalenza di origine
calcarea (16)
e gli altri di natura fliscioide (16a), ma vi
sono anche discrete presenze di rocce vulcaniche (16b).
Dalle quote più elevate e
interne, dove si elevano le vette che superano i 2000 m, una serie di lunghi
e stretti crinali si diramano verso oriente in direzione dello Ionio. In poco più di 30 km si passa dalle alte
quote (17)
al mare (18),
tra una serie di rilievi quasi del tutto isolati fra loro; caratteristica
questa che li rende particolarmente visibili e soprattutto apprezzabili dal
punto di vista paesaggistico. Tutte le vette lungo questi crinali sono
intervallate da altrettante creste longilinee, con quote minime che scendono a
volte anche sotto i 900 m.
Avendo queste montagne quasi tutte delle direttrici O-E e l’assenza, come si è
detto, tutto intorno di altri rilievi, nei loro relativi versanti, secondo i
casi, può esserci un clima particolarmente freddo, temperato o caldo, con una
vegetazione arborea abbondante e molto variegata. Al contrario, lungo tutti i
crinali, siano essi a basse o alte quote, causa i forti e duraturi venti
invernali del nord, la vegetazione arborea è quasi del tutto sostituita da
quella erbacea, anch’essa ricca e folta. Rinomate sono, infatti, le praterie di
crinale (18a).
Tutto ciò ha prodotto una
netta diversificazione di paesaggi, con corsi d’acqua a torrente, a fiumara e a
canyon. Nei terreni flisciodi del Monte
Sparviere e vulcanici del Crinale
delle Murge e Serra Scorsillo,
scorrono o nascono le cosiddette fiumare, vaste, ghiaiose e pianeggianti (19) e i
classici torrenti. Nei rimanenti terreni calcarei, hanno preso forma in maniera
maestosa i canyon (20).
Le fiumare sono delle vere
e proprie “autostrade naturali”, di facile accesso, ed hanno la particolarità
di avere un micro clima caldo, anche in pieno inverno.
I
canyon sono contornati invece da
altissime pareti rocciose e quindi offrono una visione decisamente
“mozzafiato”. A differenza delle fiumare, il loro letto e i versanti, a volte,
come nel caso di alcuni loro affluenti, sono inaccessibili senza l’ausilio di
corde e relative tecniche di progressione speleo-alpinistica (21).
Nonostante l’aspro e
isolato territorio, per la maggior parte montano (che potrebbe far pensare a un
disinteressamento da parte dell’uomo), una delle componenti caratterizzanti
della Terra di Marsilia e delle aree
limitrofe, è l’estrema varietà di risorse storico-archeologiche offerte dalle
sue contrade in cui sono presenti chiare tracce di una lunga serie di
frequentazione umana che abbracciano quasi tutte le epoche (22).
Vecchi e recentissimi studi
hanno dimostrato che l’uomo si è affacciato in questi luoghi sin dalle epoche
più remote. Nella Grotta del Caprio (7)
che si apre nel territorio comunale di Francavilla
Marittima, sono stati individuati numerosi e antichissimi reperti. Sempre
dallo stesso territorio è avvenuta la scoperta certamente più sensazionale e
importante non solo dell’area ma dell’intera Sibaritide. In località Timpone
della Motta e Macchiabate (8),
sono ubicati un insediamento e la relativa necropoli, risalente all’età del
Bronzo (ca. 1500 a.
C.), entrambi strettamente legati, nella loro seconda fase esistenziale, alla
vicinissima e mitica Sybaris (9).
Alcuni studiosi hanno identificato questo antico insediamento con la leggendaria Lagaria, città enotria e famosa nell’antichità per
il suo squisito vino.
L’equivalente del sito di Motta-Macchiabate è certamente il
cosiddetto sito di Castello di Cersosimo,
ubicato sul versante lucano del Pollino nord-orientale (10).
Altro antico insediamento
che merita menzione, certamente legato alle sovrastanti opere difensive e forse
anche abitative di Timpa Porace-Cassano,
è quello detto di Palmanocera, che
si trova nel comune di Civita ma notevolmente
vicino a San Lorenzo Bellizzi. Il
luogo è incantevole e solo i monaci bizantini
potevano sceglierlo come loro sacra dimora (11).
Ma le ricerche archeologiche
che certamente meritano un particolare elogio sono senza alcun dubbio quelle
eseguite dagli studiosi del Raganello
Archaelogical Project (RAP), una particolare équipe composta da
archeologi, geologi, topografi, ecc., proveniente da ogni parte d’Europa, egregiamente diretta dal prof. Attema e van Lausen dell’università di Groningen
(Olanda) (12) e guidata per le contrade
da noi speleologi del Gruppo Speleologico
Sparviere (13).
Eredità di tutti questi antichi
popoli e dei loro insediamenti sono gli abitati attuali di San Lorenzo Bellizzi (14), Civita
(15),
Terranova di Pollino (16),
Alessandria del Carretto (17),
Plataci (18), San Paolo Albanese (19), Cersosimo
(20),
San Costantino Albanese (21), Cerchiara
di Calabria (22), Francavilla
Marittima (23) e Frascineto
(24),
ben diffusi e posizionati omogeneamente, per la maggior parte, come anche i
loro rispettivi insediamenti agro-pastorali, piccoli o piccolissimi, molto
caratteristici, ricchi di tradizioni (25) e tradizionalmente ospitali. Alcuni abitati
sono prettamente di origine italica, gli altri, ma solo le popolazioni, di
origine albanese (emigrate in Italia a partire dal sec. XV). Di conseguenza la
lingua qui parlata è diversa da paese a paese (26). La gente è con il
forestiero generalmente ospitale, con un’innata voglia di intrattenersi con
loro; molto compatta all’interno dei propri clan, è all’esterno diffidente, comportamento
certamente arcaico ma anche derivato da secoli di angherie e soprusi. In
generale però con i miei conterranei ci si sta proprio bene.
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LAGOFORANO
Ora possiamo iniziare il
viaggio, e non si può che farlo partire da quel luogo visitato da me ragazzino
e che ha influenzato tutta la mia vita.
Il giorno di “pasquetta” (classico
giorno d‘esplorazione dei ragazzini della mia generazione) di tanti anni
addietro, con dei coetanei, mi avventurai sugli Altopiani di Lagoforano, posti sul Monte Sparviere (23). Li giunto, nel vedere verso mezzogiorno e occidente quelle immense e chiare montagne rocciose
contornate da verdi paesaggi, mi chiesi cos’erano e mi rimasero
in mente perennemente (23a). Lo capii ben presto quando, poco tempo dopo, con mio
padre e con mio cugino Felice ci recammo, con una sgangherata jeep, in uno di
quei luoghi, molto rammentato dagli anziani. Appena superato l‘ultimo colle,
tutto a un tratto capii che il mio destino era segnato: <<questi luoghi
faranno per sempre parte della mia vita>> mi dissi e così, infatti, è
stato. Di Marsilia allora,
giovanissimo, non me ne potevo ancora accorgere, ma ugualmente,
quell‘impressionante e nello stesso tempo attraente paesaggio, pieno di mistero
e fascino, m’invitò a esplorarlo. Da allora non riesco più ad allontanarmene. Eravamo
giunti alla cosiddetta Timpa della Falconara (24), posta in piena Terra di Marsilia, che nella cultura
locale ha sempre rappresentato il luogo leggendario per eccellenza e per me
anche simbolico. Fu la prima vera “timpa” (27) vista e toccata da
vicino, che sognavo di notte e irraggiungibile per la mia giovane età e la sua
fama.
LA
FALCONARA
La
Falconara per molte popolazioni dei paesi del
circondario, compresa la mia Alessandria,
ha sempre rappresentato il limite massimo che l’uomo poteva raggiungere, una
vera e propria barriera naturale, con a guardia spiriti maligni e dimora di
briganti. Un luogo inaccessibile ma nel contempo, e paradossalmente, per
sfuggire da ingiuste leggi, un luogo protettivo (28).
Ma la sua attrazione per
me, e sicuramente per tantissimi altri, è dettata anche dall’aspetto
naturalistico. Se pure pericolosa, è davvero bella e affascinante, ricca di
attrazioni e generosa di regali, primo fra tutti lei stessa! (25)
E’ di natura calcarea,
frutto di spinte tettoniche compressive, che hanno portato al sollevamento del
sub-strato calcareo originario e che ha permesso di farla sollevare per ben 1656
m s.l.m., in maniera fra l’altro
originalissima, con un dislivello medio fra la vetta e i terreni circostanti di
ca. 300 m.
La sua forma è pressapoco a piramide ma con due vertici. Dal lato N-E, l’originale piattaforma pianeggiante, ha una
pendenza media del 45% a “franapoggio” (26); dal lato meridionale,
invece, si presenta come una parete perfettamente verticale e stratificata a
“reggipoggio”, alta quasi 300 m (26a); il
terzo e ultimo versante, quello occidentale è di più facile approccio,
direttamente collegato allo spartiacque di Toppo
Vuturo, quindi meno elevato rispetto agli altri, quindi una via di mezzo
dove medie pareti rocciose si alternano e si inglobano a vasti e piccoli
terrazzi coperti in parte da alberi di faggio. Tutti i versanti convergono
nelle due e vicinissime vette presenti: quella principale, posta a meridione, è
alta 1656 m,
quella settentrionale, ossia la minore, è invece di 1596 m.
Il tipo di calcare presente
(Giurassico-Cretaceo), particolarmente stratiforme, ha permesso la formazione
di diverse grotte, per la maggior parte piccolissime, ma una di esse, la Grotta della Falconara, ha discrete
dimensioni (29).
La vegetazione arborea di
una certa consistenza è assente nella parte rocciosa ma è sostituita da
numerosissime specie erbacee di ogni tipo, soprattutto aromatiche e grasse e da
arbusti “nani” o striscianti, che trasformano la Timpa della Falconara in uno stupendo
giardino roccioso direttamente a contatto con il cielo (26b).
Questo imponente massiccio
roccioso si eleva a cavallo dello spartiacque fra la Valle del Raganello, posta verso Sud e la Valle del Sarmento, posta invece a Nord, che
dal Monte Sparviere (1713 m s.l.m.) conduce fino
al cuore del Pollino, su Serra di Crispo (2053 m s.l.m.). Verso
mezzogiorno un altro sottostante crinale terroso, che copre una comune radice
calcarea, la collega con la Timpa di San Lorenzo (27), sua consorella maggiore, che comincia a
elevarsi, imponente, poco oltre la parte più bassa del crinale, in
corrispondenza del valico di Colle di
Conca (1340 m
s.l.m.), il quale mette in comunicazione il piccolo e secondario bacino del Torrente Maddalena (affluente del Raganello medio) con l’Alta Valle del Raganello, nella cui
parte iniziale qualche secolo addietro i sallorenzani
vi hanno edificato, in un meraviglioso rilievo, la piccola Chiesa di S. Anna (30).
Proprio dalla chiesetta si diparte un antico sentiero detto Passo della Lamia, davvero bello che
dopo aver lambito l’ingresso del Canale
Marcantonio, uno degli affluenti verticali del Raganello, tramite una ripida e lunga discesa a strapiombo che
taglia quasi in due l’altissima parete meridionale di Timpa San Lorenzo, dove è presente la mitica ed inesplorata Grotta dei Briganti, conduce fino
all’alveo del fiume, all’imbocco a monte delle Gole di Barile per connettersi successivamente ad un’altrettanta
originale mulattiera detta “di Barile”,
che più avanti tratterò.
LA
SALLORENZO
Quando devo parlare o
scrivere della Timpa di San Lorenzo
mi si apre il cuore. Sento davvero che mi appartiene e che queste mie emozioni
vanno assolutamente passate agli altri poiché sono convinto che tali sentimenti
migliorino l’animo di ognuno di noi e di conseguenza la società. Questa “timpa”
é il mio vero luogo sacro e magico del Pollino,
dove madre natura ha egregiamente dimostrato la sua grandezza e bravura e dato il
messaggio agli uomini che sulla terra esiste il paradiso! Godere da quassù un’alba
o un tramonto è un’esperienza davvero indimenticabile soprattutto se si
scelgono i giorni a cavallo della notte di San
Lorenzo (28).
La Sallorenzo,
come confidenzialmente la chiamo, è davvero un luogo paradisiaco e non esagero. Alta 1652 metri è posta al centro dell’altrettanto
stupenda alta Valle del Raganello,
il vero cuore della Terra di Marsilia.
La sua strabiliante morfologia, a forma di un’enorme e nuda piramide con pareti
che superano anche i 1000 m
di dislivello (28a),
domina in maniera maestosa tutto il circostante territorio. Dalla sua vetta, si
possono godere: i verdi fianchi del versante meridionale del Monte Sparviere, la rocciosa cima del Monte Sellaro, le vette principali del
cuore dei monti del Pollino con all’orizzonte,
proiettate le sagome degli imponenti alberi di pino loricato e sottostante, la
vastissima foresta di faggi detta Fagosa;
l’appuntito e verde Toppo Vuturo;
l’altrettanta spettacolare parete Sud della Timpa della Falconara. Altri interessanti elementi da segnalare
sono i tre affascinanti crinali presenti che dividono i vari fianchi. Quello
che separa il versante meridionale da quello N-E, per la sua morfologia (come
un vero e proprio angolo molto acuto) e per la maestosità dei paesaggi visibili,
rasenta l’incredibile. Soprattutto il paesaggio è dominato dalla Sallorenzo
stessa, luogo di sogni e riflessioni, dove solo gli uomini migliori si trovano a
loro agio. E’ l’ultima dimora dell’aquila reale, maestoso rapace, degno della
maestosità dei posti in cui vive e si nasconde. Non ci sono certamente molti
esemplari ma questo è dovuto non tanto alla passata distruzione operata
dall’uomo ma alla estensione del territorio stesso. In effetti, quest’area non
è eccessivamente ampia, o almeno non sufficiente per la nidificazione e la
caccia di più di due coppie. E’ in questo luogo che bisogna recarsi se si vuole
avvistare qualche aquila reale, ma non crediate però che sia così facile. Oltre
ai posti che sono particolarmente di difficile penetrazione, il rapace è molto
schivo e intelligente. Ha capito che meno si fa vedere da vicino meglio è per
lei. Di tanto in tanto però, e soprattutto nelle giornate chiare, sia d’inverno
sia d’estate, è possibile avvistarla nella profondità del cielo o appollaiata
su qualche picco. E’ inconfondibile; non avrete dubbi nel riconoscere la sua
maestosità. Del resto oltre che schiva, è, paradossalmente, molto vanitosa.
Spesse volte sembra infatti che ti voglia dire: <<guardami come sono bella ed imprendibile>>. Ha pienamente
ragione! Quando più volte ho avuto modo di vederla, è stato come se il tempo si
fosse fermato; tutto si dimentica poiché essa attira la nostra attenzione come
un magnete. Ti guarda per qualche secondo e con molta calma e sicurezza spicca
poi il volo lasciando solo la possibilità di ammirarla ancora per qualche
minuto nel baratro delle Gole di Barile,
lasciando in compenso un ottimo ricordo (29).
Nonostante la complessità
naturalistica, la struttura geo-morfologica della Sallorenzo è alquanto
semplice. Come tutti gli imponenti picchi e pareti della valle, ha avuto
origine molti milioni di anni addietro da sedimentazioni di microrganismi con
guscio calcareo. Grazie poi a compressioni tettoniche, si è creata l‘attuale
morfologia. Poche sono le grotte conosciute, tutte piccole o piccolissime,
adatte alla frequentazione umana di ogni genere, da quella pastorale a quella
brigantesca. La famosa Grotta dei
Briganti qui ubicata è però ancora tutto un mistero, come le altre che si
aprono nei suoi versanti meno accessibili. (31)
La Sallorenzo è grandiosa
con dislivelli realmente notevoli. Nell’unica vetta presente vi convergono i
tre versanti, uno dei quali, quello meridionale, mozzafiato nel vero senso
della parola, si sviluppa interamente in maniera enorme e omogenea in quasi
perfetta verticalità; dopo oltre 1000
m e una lunga serie d’impressionanti pareti,
intervallate da micro e macro terrazzi in parte alberati, raggiunge l‘alveo del
torrente (30).
Si tratta davvero di un luogo inconsueto, forse l’unica area in Italia ancora inesplorata. Ma gli altri
versanti non sono da meno, soprattutto quello di N-E: a forma di mezza luna,
inclinato con una pendenza media del 45%,
vastissimo e perfettamente omogeneo, tutto d’un colpo emerge dai sottostanti
terreni agricoli; nella parte inferiore sono presenti bellissimi e intatti alberi
di leccio e fillirea (31).
LE
GOLE
Oltre quei 1000 m di verticale sottostante
la vetta della Sallorenzo, si apre come una gigantesca bocca, un favoloso
orrido, che a mo’ di un enorme serpente (32) s’insinua nel territorio per
circa 10 km
fino a raggiungere gli ultimi rilievi collinari che precedono la ridente Piana di Sibari (32a). Il torrente che
vi scorre dentro, il Raganello (32),
nasce alla Grande Porta del Pollino,
a una quota di circa 1800 m
e lungo il suo tragitto raccoglie le acque di vari affluenti fra i quali
spiccano il Canale del Vascello e il
Torrente Maddalena-Malamorta. Il
primo prende forma dalle pendici di Serra
Dolcedorme, il secondo da quelle del Monte
Sparviere; insieme alle altre numerose immissioni, rendono il corso d’acqua
discretamente copioso anche nei periodi di forte siccità.
Nella parte medio-alta, nei
pressi dell’abitato di S. Lorenzo,
la parete della sinistra idrografica delle gole scompare sotto i terreni
argillosi e franosi dei pendii meridionali di Serra di Paola, interrompendo così le gole vere e proprie per ca. 2 km. Il canyon si trasforma
prima in un classico torrente e poi in fiumara. Più giù però le pareti
ridiventano gradualmente elevate fino a divenire nuovamente imponenti. Per
questo motivo e per ragioni escursionistiche le gole sono suddivise in tre
parti ben distinte.
Le Gole di Barile, lunghe ca 2,5 km
e con un dislivello di circa 150 m, “nascono” dalla base sud-occidentale
della Timpa di San Lorenzo e si
formano in corrispondenza della Timpa di
Porace-Cassano dove, a differenza della Sallorenzo, sono ubicate diverse
grotte fra cui la Grotta di Palmanocera, di una certa
lunghezza, e la mitica e prima menzionata Grotta
di Marsilia, piccola, ma per me fondamentale (33). Sarebbe sbagliato dire
che queste gole sono le più belle, ma hanno qualcosa di diverso rispetto alle
altre: più selvagge e per niente antropizzate e poi
l’acqua è particolarmente pulita (33). Il versante destro idrografico è attraversato per tutta
la sua lunghezza da una caratteristica mulattiera che nella sua parte iniziale
di valle presenta un accentuato restringimento a strapiombo sul torrente dove
alle cavalcature e alle persone che soffrono di vertigini, per l’esiguità dello
spazio e per il vuoto, è impossibile passare! Questo particolare passaggio
forzato, chiamato da sempre Scala di
Barile, era un tempo, se pur di difficile attraversamento, alquanto
strategico e importante dato che era l’unico collegamento invernale diretto fra
le ridenti contrade montane agro-pastorali di Bellizzia e il paese di San
Lorenzo (34);
ancora prima lo collegava con l’antico insediamento cenobita bizantino di Palmanocera, costruito intorno all’anno
1000 d. C. proprio al suo imbocco di valle, su una collina ben isolata e
protetta, almeno dalle incursioni. Antecedentemente l’area era stata frequentata
da una nutrita e forte comunità protostorica.
All’interno delle gole,
quasi rasente l’alveo, sgorgano a pressione da stretti buchi nelle rocce
diverse piccole sorgenti, qualcuna “a doccia” e che ha permesso di ricoprire
con vaste incrostazioni calcitiche e una enormità di verdi piante di
capelvenere l’area di deflusso. A questo si aggiunge, nella parte centrale e
dalla destra idrografica, un affluente a forra e verticale, ma non perenne,
detto Canale della Mancosa (34)
che solo da qualche decennio è stato disceso ed esplorato integralmente. Più a
monte, fuori gola ma in piena parete rocciosa della Sallorenzo ne discende un
altro simile detto Marcantonio (35).
Si tratta di particolari immissioni, se pure non perenni, che hanno fatto del Raganello un luogo molto ricercato
dagli amanti del nuovo sport escursionistico detto “canyoning”. (36)
La cosa però che
contraddistingue le Gole di Marsilia
è la morfologia complessiva, che come su una sorta di tela pittorica potrà essere
goduta in piena tranquillità e piacevolezza dal piccolo e accogliente paese di S. Lorenzo: a destra, enorme, a forma
di mezzaluna addossata ai terreni, si distingue nettamente la Timpa di San Lorenzo, in parte spoglia; a
sinistra s’innalza il tozzo e grosso gruppo roccioso di Timpa Porace-Cassano con alle pendici la nuda e sassosa “Collina” di Palmanocera, avvolta e ben
protetta a valle dall’alveo dal torrente. Fra il cielo e le rocce appare la
verde Alta Valle del Raganello, dominata a sua volta dalla brulla ed elevata Serra Dolcedorme che con i suoi 2267 m domina tutto. A
destra e a sinistra altri affascinanti luoghi, come la Timpa della Falconara, la
Pietra Sant’Angelo
e le Gole Basse, si aggiungono
in maniera uniforme. Paesaggi di questo genere sono davvero difficili da
trovare (35).
Le Gole centrali sono lunghe circa 2 km
ed hanno un dislivello di circa 100
m. La loro caratteristica è di non avere pareti molto
alte o particolarmente alte e verticali (36), infatti, il versante
sinistro idrografico presenta delle pareti rocciose che superano di poco i 100 m. Nella loro parte
iniziale vi è un breve tratto di qualche centinaio di metri, detto Pietraponte, dove, a volte, la stessa
parete non è più alta di 10 m.
Come si potrà capire dal nome, un enorme macigno incastrato in tempi passati in
maniera naturale fra le due pareti, con semplici e funzionali adattamenti fatti dall’uomo, permette di passare
in modo certamente originale e avventuroso da un versante all’altro (37), come
da chissà quanti secoli hanno fatto i pastori di capre (37) del
posto. Il versante opposto se pur non perfettamente verticale, è alquanto
maestoso, continuazione naturale della citata Timpa di Porace-Cassano. E’ qui che ha sbocco un affluente del
tutto particolare, il Grimavolo, un
vero e proprio abisso al contrario, a cielo aperto, di difficilissima
accessibilità. Non a caso da sempre i pastori e i contadini l’hanno considerato
come il massimo limite. Il suo dislivello è di ben 460 m, proiettati su
altrettanto sviluppo planimetrico. Insomma, la verticalità è molto accentuata.
I salti, in prevalenza inclinati dell’80-90%, sono 27 e vanno da un’altezza di 2 a ben 100 m (38).
Al termine di questo tratto
di canyon s’inarca un antico ponte in pietra (ora purtroppo quasi crollato)
detto di Santa Venere o più
comunemente Ponte D’Ilice (dei
lecci) (38).
Da tempo immemorabile è servito per collegare, tramite una mulattiera detta “di Cruecchie”,
l’alta Valle del Frido e del Sarmento, in Basilicata, con la vasta area marina, fertilissima, di Cassano Ionio, in Calabria. E’ detta in questo modo per le sue caratteristiche
fondamentali: accidentata, irta e pericolosa per il passaggio delle cavalcature,
tant’è che più d’una ci ha rimesso la vita cadendo nella sottostante e profonda
gola, quindi più adatta alle persone, o meglio ai gruppetti, “crocchi” appunto,
in dialetto sallorenzano cruecchie.
Sono dette Gole basse quelle comprese nella parte
di canyon che va dal Ponte d’llice al Ponte
del Diavolo (39);
sono lunghe poco più di 4 km
e il loro dislivello è di ca. 160
m. Anche queste, come le precedenti, hanno un andamento
principalmente orizzontale, tranne alcuni piccoli tratti particolarmente
inclinati. In esse ha sbocco l’altro affluente verticale, detto il Caccavo,
che presenta un dislivello di 330
m su uno sviluppo planimetrico di poco meno di 250 m. Questi dati fanno
intuire che si tratta anche in questo caso di una forra con andamento molto
verticale, seconda solo al Grimavolo.
Vi sono, infatti, ben 25 salti dai 3 ai 60 m, sette dei quali facilmente superabili
senza l’ausilio di corde. Può essere suddiviso in tre parti ben distinte: la
prima con i salti più alti; segue quella centrale e l’ultima parte invece ha
salti abbastanza alti ma quasi in parete e poco inforrati. Nella parte compresa
tra la centrale e la finale vi è un tratto molto incassato. (39)
Il versante meridionale delle
Gole basse è attraversato da una
miriade di sentieri che s’inerpicano e discendono una lunga serie di luoghi accidentati
detti Timpe di Aria Massaro e Lamie, a
tratti molto alberati, collegati ai Pianori
di Sacchitiello. Questi ultimi, dominati da fianchi semi-inclinati e
suddivisi da piccole e verticali pareti a “reggipoggio”, sono uno spettacolare
e comodissimo balcone su tutto il canyon basso e sull’opposta e vasta parete (40). In
seguito, man mano che le rocce riducono la loro superficie, i dirupi ridiventano
nuovamente molto verticali e profondi, ma la loro corsa è breve dato che, poche
centinaia di metri più a valle, il canyon ha termine ed è proprio qui che è
posto, come un nido d’aquila, il paese di Civita.
La vicinanza all’abitato, ai terreni agricoli e la sua, relativa, facile
penetrabilità e l’accessibilità all’alveo, hanno reso questi luoghi, in
particolar modo la zona di Sacchitiello,
poco ricchi di piante, tranne che per l’euforbia cespugliosa che è alquanto
presente e, nei periodi d’inverdimento, molto bella da vedere, se pure
pericolosa per il suo “bruciante” lattice. Le poche grotte presenti sono tutte
piccolissime ma affascinanti e piene di mistero (40).
Molto più spettacolare è il
versante opposto, come già detto facilmente godibile da Sacchitìello, da dove, fra l’altro, se non fosse per il profondo
canyon che li divide, si potrebbero quasi toccare con mano i numerosi terrazzi
e le relative grotte in esso sviluppatesi (41). Esso si deve considerare
un’unica enorme parete rocciosa, dalla gente locale è suddiviso “toponomasticamente”
in tre parti. A monte la parete è chiamata Timpa
i Ciende, forse dalla “storpiazione” della parola “recinti”; centralmente è
detta Timpa i Sc-cosce, forse per la
non omogeneità dei versanti; la parte finale è chiamata Timpa (o Pietra)
del Demanio (42). L’intera lunghezza si
aggira intorno a 5 km
e il dislivello va dai 200 ai 600
m, con pareti a volte notevoli, intervallate da
numerosi, vasti o piccolissimi terrazzi, molti dei quali alberati soprattutto con
piante di fillirea, leccio, ginepro e pino d’Aleppo.
In corrispondenza del
ciglio della Timpa i Ciende è
presente l’intatto e meraviglioso Bosco
di Santa Venere composto in prevalenza da specie quercine; qui classiche e
semplici passeggiate si possono facilmente trasformare in meravigliosi “affacci
da brivido” (43).
Ma se si vogliono evitare i “brividi sottocutanei” basterà osservare le gole
dalla Strada Statale n° 105 dove il
paesaggio è dominato dalla massiccia Timpa
del Demanio con i suoi 600
m di dislivello, quasi tutti a picco sul torrente, e dal
paese di Civita, appollaiato sulla
parete opposta (44).
Come nelle Gole Alte, anche qua la gola e
attraversata da un’originalissima mulattiera, ma in questo caso il sentiero
passa da un versante all’altro, tramite un ponte in pietra, il Ponte del Diavolo, ricostruito da poco
su piloni molto antichi, ricco di aneddoti leggendari (41). Quest’antica strada mulattiera fino a
pochi decenni orsono era importantissima, poiché collegava, con più sicurezza
rispetto al precedente citato Ponte
d’Ilice e da epoche remotissime, la Valle dell’Eiano e quella del Coscile con l’Alto Ionio Cosentino e la Basilicata
centro orientale. Non è un caso, infatti, che nell’area dello sbocco di valle
delle gole, numerosi sono gli insediamenti protostorici e di epoche successive,
trasformati infine nell’attuale e bellissima Civita, abitata negli ultimi 500 anni ca. da popolazioni arbëreschë provenienti
dalla terra balcanica d’Albania (42).
Altre accomunanze con le
gole alte sono i numerosi racconti storici-leggendari. In uno di essi, arrivatoci
di nuovo dalla tradizione orale femminile, il personaggio chiave è nuovamente una
donna … perfida, un’altra “malafemmina”, ma anche in questo caso solo per il
gentil sesso! Non si conosce il suo nome, ma semplicemente è genericamente detta
“megàre” o, come nella lingua arbëreschë, “magaris”, ovvero “megera”. La sua dimora anche in questo caso ricade in
una grotta, posta in piena parete verticale per oltre 300 m, quindi in un luogo, almeno per i tempi
passati inaccessibile (45). A causa della solita gelosia
delle donne sposate, Megaira fu costretta ad allontanarsi
dall’abitato e vivere isolata in quell’anfratto. Da allora però una maledizione
costringe le donne nubili a non poter guardare verso quella sua grotta-dimora
inaccessibile, pena il non sposarsi mai più! (43)
Per tale credenza, e per un
filone comune a quello di Marsilia e a tante altre di ogni
parte d’Europa che legano l’aspetto
inquietante delle gole in genere a cose sovrannaturali e pericolose, molto si è
detto e scritto sullo spettacolare Canyon
del Raganello, in alcuni casi però in maniera sbagliata o poco precisa. Una
delle maggiori inesattezze è legata alla sua accessibilità, definita da molti
“impossibile e pericolosa”; ma questo vale in parte, soprattutto per gli
affluenti a forra e una buona fetta delle pareti e delle sue grotte. L’alveo e
i bordi delle pareti, sono certamente poco comodi e irti di pericoli, ma se si
affrontano con umiltà e saggezza, chiunque potrà approfittare della loro
bellezza. Il tutto però non va assolutamente sottovalutato giacché il rischio
di farsi male è alto e questo è dimostrato dai molteplici incidenti, anche
gravi, accaduti agli escursionisti che da qualche decennio la scelgono come
loro meta. In ogni caso il canyon è davvero bello e affascinante, descrivere
però con poche righe quello che un potenziale visitatore potrebbe provare, nel
percorrere il suo alveo, i suoi affluenti, le pareti o le sue grotte è alquanto
difficile e in ogni caso sarebbe sempre riduttivo poiché il paesaggio, o meglio
l’ambiente naturale in genere (strettamente collegato alla storia dell’uomo), è
stupefacente tanto da lasciare a bocca aperta e senza parole. Vediamo però di
provarci.
Nell’arco dei millenni le
acque del Raganello hanno creato uno
dei più bei e maestosi canyon d’Italia,
dove paesaggi mozzafiato, forti emozioni, brividi e tanto altro sono alla
portata di mano. A questo si unisce una moltitudine di sensazioni tipiche, diverse
in ognuno di noi; a volte tutte mescolate insieme, come l’ebbrezza, la pelle
d’oca, la soddisfazione, il credo, l’apprezzamento, la voglia di vivere e di
apprendere e vedere ancora. L’essere insomma contentissimo di aver conosciuto e
apprezzato un mondo insolito, che da sempre ha messo, paradossalmente,
soggezione alla maggior parte degli uomini. Una gran voglia addosso di
ritornarci quanto prima e di raccontare ad amici e parenti la propria positiva
esperienza (almeno per una buona parte dei visitatori) è la prova lampante.
Certamente il rispetto e il
timore nei confronti del Raganello
(delle credenze e legate a esso) e cosa esso è stato capace di produrre devono
essere una costante. Qualcuno potrebbe essere dell’idea che le gole si possono
meglio apprezzare dai numerosi belvedere presenti lungo i suoi versanti e nei
più prossimi pressi (46). Ha ragione, ma soltanto in parte. Goderle prima da quei
comodi “balconi” e poi dal di dentro (47) o anche dai numerosi banchi
delle pareti (48),
che le hanno formate, o lungo i suoi affluenti verticali (49) è
qualcosa in più.
Le Gole del Raganello si possono affrontare in diversi modi.
L’importante, fondamentale e vitale, lo ridico, è essere consci delle proprie
forze, del proprio livello tecnico e delle difficoltà e pericolosità dei
percorsi. Come prima cosa bisogna conoscere l’itinerario che si è deciso di
affrontare; poi percorrerlo nel massimo della sicurezza, quindi equipaggiati
adeguatamente (50),
e per motivi legati alla propria sicurezza, informare preventivamente gli
organi di soccorso (44). Si dovrà essere assolutamente umili
come del resto lo sono e lo sono stati sin dalla più remota antichità i suoi
più classici frequentatori, perfettamente amalgamati con quelle difficili
morfologie, costretti a conviverci e instaurando una particolare “simbiosi”. Mi
riferisco ai pastori che nell’arco dei secoli hanno, ovviamente, modificato il
loro modo di vivere. Del resto i proprietari più ricchi e potenti si tenevano
le terre più fertili e comode!
Vidi per la prima volta i “pastori
delle rocce” (51)
da ragazzo, durante i miei viaggi a San
Lorenzo. Rimasi subito
affascinato dall’arte che avevano nel “camminare” sulle rocce della Gola di Barile. Bisogna dire fra
l‘altro che quei pastori erano mal calzati e mal vestiti, soprattutto se
vengono paragonati con chi oggi affronta una parete rocciosa. Questo mi rendeva
ancora più perplesso nel vederli saltare o arrampicarsi da una roccia all’altra
con una totale disinvoltura e una domanda mi veniva spontanea: <<ma come fanno?>>. La risposta va senz’altro ricercata nel
loro DNA. Questi mingherlini ma resistentissimi signori per esigenze pratiche
hanno colonizzato i numerosi strapiombanti terrazzi, attribuendo loro i nomi e
utilizzandoli per vari fini; stessa cosa è avvenuta con le numerose grotte lì
ubicate. Il rischio giornaliero era molto elevato. Numerosi erano i pericoli,
primo fra tutti le cadute da piccole o impressionanti altezze. Dove però non
era possibile andare “in libera” si utilizzavano metodi originalissimi come
farsi calare con la corda o qualcosa di simile, o costruire delle passerelle
con rami d’albero mantenuti fra loro con semplici cordicelle o filo di ferro (52); a
volte erano conficcati nelle fessure della roccia rudimentali punteruoli
metallici o di legno. Durante un’escursione ho visto persino un pezzo di
vecchio ferro d’asino incastrato in una fessura e usato come supporto per le
passerelle (53)!
Questi segni sono purtroppo ormai rari, ma a vederli si rimane davvero colpiti.
Persino i toponimi di alcuni vecchi percorsi mantengono ancora il nome
originale.
A tutto ciò si deve
obbligatoriamente credere perché una prova inequivocabile ci viene proprio dalla
toponomastica. Ogni pezzettino di parete rocciosa, sia essa verticale o
terrazzata, a portata di mano o inaccessibile, ha un nome e inoltre in essi vi
sono chiari segni di frequentazione. A vederli da lontano viene molto difficile
pensare che in quei minuscoli terrazzi ci sia stato l’uomo, eppure qualcuno ci
ha vissuto. A testimonianza di questo vi sono le numerose grotte con chiari
segni di frequentazione di ogni epoca e lungo i terrazzi, oltre alle già citate
opere di miglioria, vi sono anche terrapieni, muri, ecc. (54)
Ora di questi pastori ve ne
sono pochissimi, ma se si ha fortuna, in zone adatte si può ancora osservare
qualcuno arrampicarsi tenendo in mano o fra i denti un sacco contenente dei
giovani capretti e ai piedi delle rustiche scarpe! Il tutto mentre supera uno
strapiombante e stretto passaggio per andare a liberare quegli animali nel
vicino terrazzo (55)
! Al ritorno il pastore blocca quell’unico passaggio con un piccolo cespuglio;
così i capretti sono costretti a rimanere in quei limitati pascoli fino a che
non arriva la brutta stagione, che a seconda della zona può coincidere
paradossalmente anche con l’estate. In
quei pascoli i capretti sono al sicuro sia dai ladri sia dai lupi e al pastore
non resta altro che andarli a controllare ogni tanto.
Sempre i soliti pastori
hanno un loro singolare modo di chiamare i passi d’accesso ai terrazzi. Quando
incominciai a frequentarli e domandargli se conoscevano qualche grotta in quel
determinato banco, la risposta oltre ad essere affermativa era anche molto
originale: <<Stai attento ad andare
lassù, perché potresti vedere il Paradiso!>>. Raggiunta la prima
volta la Grotta Lubbertit (45), solo per fare un
esempio, mi resi subito conto di cosa voleva dire quel pastore: poco prima di
imboccare il piccolo terrazzo d’accesso bisognava scendere un ripido canalone
con pietraia che tutto d’un colpo sbucava in piena parete strapiombante per
oltre 300 m!
Dal lato paesaggistico si vedeva davvero il paradiso e l’avrei visto, forse,
anche in caso di mia caduta verso il basso, poiché le possibilità di scivolare erano
elevate!
Come ho già detto, gli
“uomini delle rocce” ormai sono pochissimi ma, per fortuna, la loro eredità
culturale è giunta fino a noi e, se pur trasformata in attività ricreativa,
rimane. Da qualche anno infatti, seguendo i loro percorsi e imitando le loro
tecniche (con l’aggiunta di conoscenze moderne) abbiamo “inventato” una
particolare attività escursionistica a cui abbiamo dato il nome di “banchismo”,
una via di mezzo fra l’alpinismo, la speleologia e l’escursionismo in zone
rocciose. (46)
OLTRE
LE GOLE
Non limitiamoci però a descrivere le sole pareti adiacenti all’alveo. I territori più prossimi e poco più lontani (al massimo al di là del vicino spartiacque di delimitazione del bacino) sono ugualmente affascinanti, incantevoli e ricchi di peculiarità, oltre che arricchiti, come uno sfondo, dalle bellissime visioni delle gole stesse.
Fra i luoghi più vicini al
torrente che meritano una più approfondita descrizione, va certamente inserita la Serra di Paola e la sottostante Pietra Sant’Angelo (56). Quest’ultima
è lì, lungo la strada di collegamento fra Cerchiara
e San Lorenzo, pericolosissima
per l’incolumità dei passanti, poiché è proprio attaccata alla strada, perfettamente
verticale da quel lato per oltre 200
m (57). La roccia è calcarea con pareti molto stratificate grosso
modo in maniera orizzontale, quindi a reggi poggio che hanno permesso il
crearsi di tanti grandi e piccoli terrazzi, intersecati ogni tanto da fratture verticali.
Complessivamente si presenta a forma di un enorme cuneo che fuoriesce dai
sottostanti e soprastanti terreni miocenici. Grazie a tutto questo sono
presenti una miriade di cavità carsiche, alcune delle quali, come la Grotta del Banco di ferro e la Grotta delle volpi, di discreto sviluppo (47).
Avendo una perfetta esposizione verso sud, l’intera parete, dai tempi più
antichi sino ad arrivare a oggi, è stata scelta dall’uomo come luogo sacro, abitativo-difensivo
e lavorativo. In quasi tutti i suoi angoli, anche quelli più accidentati,
sotterranei o superficiali, vi sono antichissime e recenti tracce di
frequentazione umana, le ultime quelle dei pastori e poco prima quella dei
monaci eremiti che hanno lasciato il nome alla contrada.
Se si vuole però rimanere colpiti
indelebilmente da visioni di meravigliosa bellezza, si dovranno guadagnare le
sue due piccole vette (che raggiungono una quota massima di 1125 m) oppure i suoi più
comodi pressi. Credetemi, nel momento in cui guarderete il paesaggio
circostante da lassù la gioia, prevarrà su ogni cosa (58). Se poi raggiungerete,
sempre con molta comodità e pochi rischi (vista la natura terrosa e boscosa) la
soprastante e acuta vetta di Serra di
Paola, la gioia ve la porterete per un bel po’ nell’animo. Dai 1386 m di quota, proprio dal
posto regionale d’avvistamento incendi, che è un vero balcone, avrete sotto gli
occhi tutta la bellezza e la straordinarietà della Terra di Marsilia (59).
Altra località rocciosa, in
parte vastamente terrazzata e molto prossima alle gole (in realtà le forma) è la Contrada
San Martino
che si è creata grazie all’erosione e ai movimenti vari della base rocciosa. Si
trova a contatto fra la Timpa
Cassano-Porace e la Timpa delle
Lamie-Sacchitiello, quindi sempre nella destra idrografica, ma in posizione
più elevata rispetto ad esse. Un ridente pianoro detto “di San Martino”, da
chissà quanto tempo colonizzato in maniera perfettamente ecocompatibile da
pastori e agricoltori è quasi interamente circondato da dirupi rocciosi. A
valle sprofondano alte e verticali pareti; superiormente, in maniera certamente
dominante, s’innalza una gigantesca muraglia, verticale, fatta da strati
rocciosi orizzontali e compatti, alti come una barriera più di 100 m: la Timpa di San Martino, appunto (60). Qui
si aprono diverse piccole grotte impostate su interstrato o su frattura (48).
Nella sua parte più occidentale s’inerpica, attraversandola con un originale
passo, una bellissima mulattiera, che era utilizzata per raggiungere le aree
agricole del Grimavolo e Porace (61). La posizione strategica della
contrata si può capire anche da un’altra mulattiera che passava da qui. Mi
riferisco alla già citata Via dei Cruecchie (dei Crocchi) che da San Lorenzo, passando per il Ponte d’Ilice, quindi dall’alveo del Raganello, saliva fin quassù e poi scendeva
verso la marina. Varrà la pena percorrerla, anche se i ripidi dislivelli ci
toglieranno un po’ di fiato.
MEDIO
E ALTO EIANO
Un’area molto vicina al Raganello, in modo particolare alla
prima citata località di San Martino,
è la media e alta Valle dell’Eiano,
che prende il nome dal torrente che qui nasce da copiose sorgenti (62). Per
la presenza di uno svincolo autostradale e relative aree urbane, l’Alto Eiano è il territorio da me
descritto con il più facile accesso stradale. Non per questo però il luogo, dal
punto di vista naturalistico è poco interessante. Escluse, infatti, queste
arterie stradali e quelle poco sviluppate antropizzazioni moderne (tutte circoscritte
nelle aree viarie), l’area è particolarmente intatta. Nelle aree pianeggianti (fertili,
dolci e utilizzate soprattutto per la viticoltura) si accedere in piena armonia
(63),
mentre in quelle montane, opposte, lo si può fare solo a piedi. Questo è dovuto
al fatto che verso settentrione, proprio alle spalle del paese di Frascineto-Eiannina, un’enorme ”scarpata”,
alquanto irta e rocciosa, tutto d’un colpo si proietta dai ca. 450 m s.l.m. fin oltre i 2000 m (64). Alla
sommità del primo muro roccioso, detto Timpa
del Corvo e Timpa Crivo (65), la
verticalità cede momentaneamente il passo ad alcuni pseudo-altopiani ricchi di
molte doline carsiche (49), che ci accompagnano all’altrettanto
roccioso e pianeggiante Monte Moschereto
(1318 m
s.l.m.), che dal lato del Raganello presenta
un versante quasi in perfetta verticalità (66). Da qui un lungo e solitario
crinale a forma di un’enorme lama dentata, conduce fin sulla vetta di Serra Dolcedorme (2267
m). Si tratta di un netto spartiacque fra il bacino
dell’Eiano e quello del Raganello, molto particolare dal lato
morfologico: roccioso, spoglio e particolarmente acuto. Lungo i suoi 3 km presenta varie vette, la più
importante e anche la più interessante delle quali è certamente il Monte Manfriana (1981 m s.l.m.), bello, misterioso
e seducente nello stesso momento. Posto all’incirca nella parte media del lungo
crinale, si presenta con due grandi piramidi (67) al centro delle quali si
trova una vera e propria oasi. Infatti, a cavallo delle sue due vette, separate
da una profonda e vasta spaccatura, che la gente locale chiama “Afforcata”, si sviluppano dolci e
lineari pianori contornati da ripidi versanti e alberi di faggio. Un vero
refrigerio di piacere: da particolarmente aspro, il posto si trasforma in un luogo
alquanto piacevole. Secondo la tradizione qui si apre una mitica profondissima
grotta ma tutte le ricerche da noi effettuate hanno solo potuto individuare
piccole caverne, ubicate nella parte meridionale della vetta occidentale (50).
Da entrambe le vette vi
sono visioni paesaggistiche a perdita d’occhio. Per questo, su quella
orientale, arsa dal sole in estate e battuta da tutti i venti in inverno, nel periodo
ellenistico, vi fu costruito un frurion
o forse un tempio, ora purtroppo del tutto scomparso, ad eccezione di alcuni
blocchi squadrati rotolati nei più prossimi versanti (51).
Quasi in maniera omogenea,
fra le varie vette della lunga serra, nel corso dei secoli l’uomo, per motivi
di commercio e soprattutto di pastorizia, ha creato diversi valichi. C’è ne
sono per tutti i gusti. Chi ama le quote più elevate, può utilizzare il valico
del Vascello (1961 m s.l.m.); chi ama le
quote medie, può utilizzare quello detto Marcellino
Serra o Sparviero (1787 m s.l.m.) e del Principe (1702 m
s.l.m.), e chi invece si vuole mantenere a quote più basse per entrare (o
uscire) nella (o dalla) vasta e lussureggiante faggeta di Bosco Fagosa, può utilizzare il Colle della Scala (1286
m s.l.m.), che, tramite storiche mulattiere è collegato
direttamente con il paese di Frascineto-Eiannina.
Si tratta certamente del valico per eccellenza che mette in comunicazione l’Alto Eiano con la media e alta valle
del Raganello, in modo particolare con
l’area cosiddetta di Colle Marcione
(1230 m
s.l.m. ca.), luogo alquanto strategico, ottimo punto di partenza e di arrivo
per le più belle escursioni nel cuore della Terra di Marsilia, e in modo particolare verso la parte più elevata
della Timpa di Porace (68) e il
cuore del Pollino.
La parte media dell’Eiano è per la maggior parte occupata
dall’abitato di Cassano allo Jonio e
di Lauopoli. Dagli studi archeologici
risulta che l’intera area è da tempo immemorabile frequentata dall’uomo, in
modo particolare le rocce che li si innalzano e che oggi vengono chiamate Muraglione, Pietra San Marco e Castello.
In modo particolare l’uomo da sempre è stato attratto dalle numerose e
lunghe grotte li ubicate. Complessivamente le grotte conosciute ed esplorate da
noi speleologi sono diciannove, le prime delle quali, il Sistema di Sant’Angelo e la Grotta
dello scoglio, risultano essere le
più estese della Calabria (52).
Se pur notevolmente
antropizzata, l’area di Casano-Lauropoli
è alquanto bella. Nudi picchi rocciosi, sulla cui sommità sono presenti
antiche vestigia, si alternano a dolci colline, separate a volte da alti
calanchi. Il fondovalle è attraversato dal Torrente
Eiano e lo sfondo, da un lato, è dominato dagli alti monti del Pollino (69) e dall’altro dalle Gole del Raganello e Monte Sellaro (70). A valle il territorio,
ingombro di secolari uliveti, degrada dolcemente verso la ricca e fertile Piana di Sibari.
MONTE
SELLARO
Altra area di facile
accesso dal punto di vista stradale, e di notevole importanza archeologica, direttamente
in contatto con la parte bassa del Canyon
del Raganello, è il Monte Sellaro (1439 m s.l.m.) (71). La
strada statale che attraversa la
Valle dell’Eiano è la stessa che porta prima
all’alveo del Raganello nei pressi
di Civita e poi a Francavilla che, insieme alla vicina Cerchiara, sono le porte d’accesso al
gruppo montuoso del Sellaro.
Proprio per la vicinanza
alla Piana di Sibari tutte le
contrade del Monte Sellaro sono da
tempo immemorabile abitate dall’uomo, siano esse di facile accesso o irraggiungibili,
come lo era un tempo il luogo sacro per eccellenza di tutta l’area, quello che
oggi conosciamo con il nome di Santuario
della Madonna delle Armi (53).
In ogni angolo del Monte Sellaro si può assistere a una
miscelazione di paesaggi naturali molto belli con testimonianze di ogni epoca.
Grotte stupende (72),
alte pareti rocciose, terrazzi strapiombanti incontaminati, stretti canyon (73),
ricche sorgenti di acqua normale e calda-solforosa (74) e visioni paesaggistiche
vastissime, coesistono con l’originale santuario (75), con i numerosi siti
archeologici come quello enotrio e magnogreco di Timpone della Motta-Macchiabate (76), con gli altri numerosi
insediamenti protostorici, con i resti del castello normanno di Cerchiara.
Il Monte Sellaro per la sua difficile accessibilità, dovuta alla
notevole e aspra componente rocciosa, possiede ancora moltissime contrade
particolarmente integre. Nel percorrere, rigorosamente a piedi, le varie
mulattiere, sentieri o tracce che si diramano in ogni direzione, le emozioni
saranno certamente tantissime. Vasti pianori strapiombanti come quello di Sant’Andrea (77), Lupparello-Santa Rosalia, Pedarreto
e Terra Masseta (78),
circondati da notevoli picchi, profondi burroni e scarpate molto alberate a
macchia mediterranea, ci permetteranno di immergerci in un mondo fiabesco; le
due cime di vetta (79)
ci faranno provare sensazioni di vera montagna e scoprire vedute sorprendenti;
il profondo Canyon del Caldanello ci
regalerà emozionanti brividi; le strane sensazioni dei luoghi inesplorati ce li
offriranno le numerose grotte.
Il Torrente Caldanello è certamente il corso d’acqua più simbolico del
Sellaro. Nasce alle pendici
orientali della piccola montagna detta Serra
di Paola (1366 m
s.l.m.) e dopo circa 15 km,
la sua corsa ha termine in piena pianura miscelandosi con la vicina Fiumara Satanasso. Comincia a diventare
molto interessante dal lato morfologico nel momento in cui lambisce per quasi 3 km le rocce calcaree
orientali del Sellaro, che qui si
presenta in maniera verticale, trasformandosi in un favoloso canyon o meglio,
com’è chiamato localmente, in Gravìna.
Il tutto è arricchito dal bel paese di Cerchiara
che fu costruito, molti secoli addietro, sull’imbocco di monte, su un alto
sperone roccioso.
La Gravìna è davvero molto bella. Anche se le pareti che la formano
non sono molto alte, hanno la caratteristica di essere molto vicine fra loro,
soprattutto nella parte più prossima all’alveo (80).
Il versante sinistro
idrografico è il meno elevato dal punto di vista della verticalità (mediamente 100 m) ed è geologicamente
misto. L’abitato di Cerchiara è
posto qui e, per questo, è molto antropizzato.
Al contrario, se pur molto
vicino, il versante opposto, grazie al canyon che ha fatto da vero e proprio profondo
fosso protettivo, l’uomo, scoraggiato dalle altissime pareti, è quasi del tutto
assente.
La Gravìna è
un vero e classico orrido, con caratteristiche tipiche di questi luoghi, ma in
un certo senso del tutto particolari, soprattutto per l’esigua limitatezza
volumetrica del suo fondo, decisamente stretto e profondo e poco percorribile.
A una quota di ca. 600 m, tutto d’un colpo e
quasi a mo’ d’inghiottitoio il torrente penetra nelle dure rocce calcaree.
Stranamente il canyon non si è formato per differente composizione geologica ma
per una sorta di grande strana erosione avvenuta non nei terreni ma nei duri calcari.
Per questo motivo il versante sinistro idrografico, rispetto a quello opposto,
presenta piccole pareti rocciose sormontate dai terreni. Il versante destro è
più maestoso. Dalla sommità del Monte
Panno bianco (1330 m s.l.m.), una
ripidissima scarpata denominata Cessuta,
a monte e Costa del ponte, a valle,
prima pian pianino, poi tutto d’un colpo, si trasforma in un impressionante
baratro, se pur terrazzato, particolarmente verticale. E’ senz’altro il “lato
migliore” della Gravìna che con
andamento molto tortuoso ha termine dopo 4 km, a una quota di circa 170 m e col notevole dislivello di
400 m, quasi
in piena pianura.
Nel percorrere il fondo,
ora purtroppo con molta attenzione poiché lo stesso è interessato da scarichi
fognari (sic!), si devono superare una serie di tratti pianeggianti
intervallati da piccoli salti in verticale e budelli semi inclinati erosi
dall’acqua la quale nell’arco dei secoli ha creato eleganti morfologie (81).
Per attraversare più
comodamente la Gravìna, l’uomo
qualche secolo addietro nella parte inferiore vi ha costruito un bellissimo
ponte in pietra e calce (82) che permetteva anche il collegamento con l’impianto
termale che oggi conosciamo con il nome di Grotta
delle ninfe Lusiadi ma che fino a pochi decenni orsono era semplicemente detta
Caldana (83) e che senz’altro ha imposto al
nome al Torrente Caldanello.
Ho cominciato a conoscere la Caldana
da ragazzino, quando mio nonno Nicola mi raccontava dei suoi viaggi come
mulattiere per accompagnare negli anni 50-60 mia nonna e altre compaesane a
queste antichissime “acque calde” curative. In seguito anch’io ho avuto più
volte modo di visitarle e utilizzarle, piacevolmente; da allora sono una mia
meta fissa. Oltre la grande ospitalità dei gestori, a me piace molto la
semplicità di queste strutture termali.
I 150 m³ circa d’acqua,
ricchissima di sali solforosi e con una temperatura che raggiunge anche i 30°
C, scaturiscono a ebollizione da strette fessure rocciose poste all’interno di
una grotta lunga all’incirca 30
m ma che è collegata per via idrica, tramite
microfratture, a un vasto sistema carsico, un vero gioiello, come tutte le altre
grotte presenti nel territori.
Ogni luogo ha una sua
caratteristica particolare; il Monte
Sellaro è nell’ambito calabro-lucano la montagna per eccellenza dal punto
di vista speleologico. Nel suo sottosuolo si sviluppano le maggiori e più
importanti grotte di queste regioni, che sono anche fra le più importanti del meridione d’Italia. Oltre le grotte
presenti, sono particolarmente importanti anche tutti gli altri aspetti tipici
del carsismo, come quello superficiale o legato a fattori storico-culturali. (54)
Meritano un primo posto tutte le grotte presenti sul Sellaro e in particolar modo l’Abisso
di Bifurto, con quasi 700 m
di profondità (55) e la bella e grande Grotta di Serra del gufo (56).
Un posto però in prima fila va anche dato al Sistema carsico della Caldana (57), prima accennato, dove speleologia, idrologia e geologia s’incontrano
in maniera davvero originale.
Essendo il calcare del Sellaro
particolarmente solubile all’acqua e nello stesso tempo compatto, le morfologie
interne delle grotte sono particolarmente affascinanti. Nell’accedere
sottoterra, con molto piacere si avrà modo di assistere a forme di
concrezionamento singolare come ad esempio quello coralliforme (84) o a
“occhio di bue” (85); ma anche in assenza di formazioni
calcitiche, gli ambienti ipogei, come nel caso dell’Abisso di Bifurto, per
la loro imponenza, sono da considerarsi ugualmente straordinari (86).
Particolari in quest’area sono anche il tipo di fauna e flora presente in
grotta. Numerose sono, per fortuna, le colonie di varie specie di pipistrello (87) e
quasi tutta la micro-fauna cavernicola è notevole e poco conosciuta dal lato
scientifico. Nella Voragine delle Balze
di Cristo oltre alla presenza di caldissime acque solforose, direttamente
collegate con la Caldana, è presente
una sorta di “vegetale” ancora tutto da studiare e, insieme con quello presente
nelle vicine grotte di Cassano all’Ionio,
una vera rarità. (58)
A tutto questo va aggiunto il fattore umano, il quale, nell’arco dei
millenni, ha operato in maniera certamente molto originale, legando alle grotte
una lunga serie di episodi, primi fra tutti quelli della propria sopravvivenza,
quelli religiosi e anche quelli leggendari-mitologici. Tutte le grotte, oltre
ad avere una storia speleologica, certamente recentissima, possono raccontarci
una trama lunga alcuni millenni. (59)
MONTE
SPARVIERE
Verso settentrione, dopo l’importante Valico di Bifurto (60),
ma già dall’abitato di Cerchiara di
Calabria, il gruppo del Monte Sellaro, cede nettamente il posto al
gruppo del Monte Sparviere (88), mia zona
d’origine, mio luogo di residenza e per questo a me legato in maniera
particolare (61).
Nettamente distinto dal
gruppo centrale del Massiccio del
Pollino e dal vicino Monte Sellaro,
la sua origine è fliscioide, quindi vi sono zone argillose, marnose e
d’arenaria. Nonostante tutto, spesso s’innalzano notevoli pareti e scarpate
rocciose.
La vetta più alta, appunto
il M. Sparviere, detto localmente
anche Timpone della Previtera, dall’antico nome di tutta l’area (62),
raggiunge un’altezza di 1714 m,
dominando, se pur di poco e in maniera non centrale gli altri rilievi del
gruppo (89).
Le principali vette sono
intervallate da lussureggianti e bellissimi altopiani erbosi sviluppatisi
linearmente su una quota media di circa 1550 m. Questi pianori, sono detti Lagoforano (90), Tacca Peppino-Rotondella e Cistone;
sono davvero particolari sia dal punto di vista ambientale che da quello
paesaggistico per le bellissime vedute sul circostante territorio e in modo
particolare sulla Terra di Marsilia.
Tramite questi altopiani-valichi ci si può affacciare in uno dei numerosi
belvedere sulla Valle del Raganello. Di colpo ci si troverà
avvolti in uno straordinario scenario. Altissime e vertiginose pareti e picchi
rocciosi, alte montagne, verdi vallate, dolci e piacevoli antropizzazioni,
luminosissimo cielo, radiosi colori, profondi canyon si apriranno davanti ai
nostri occhi. Il tutto, vedrete, sarà arricchito dal “profumo“ di una storia
millenaria e dalla presenza di gente fiera e ospitale, possessori di tradizioni
molto particolari. Nonostante tutto, i vostri occhi non hanno ancora visto
niente! Quegli aspri territori visibili da quassù celano e proteggono con tanta
imponenza altri luoghi fantastici e solo “immergendosi” si potranno scoprire.
Il Lagoforano, direttamente collegato con quello di Tacca Peppino, è quello più famoso e
bello, sia per la sua vastità che per la posizione da cui, fra l’altro, è derivato
il suo nome, “foràno”, cioè posto in alto, in cima, “fuori mano” rispetto agli
abitati più prossimi, Alessandria, verso
oriente, e San Lorenzo, verso
mezzogiorno. Il luogo è caratterizzato dalla cosiddetta Conca, un vasto
avvallamento erboso, grande quanto uno stadio di calcio, nel quale -durante il
corso dei millenni- per motivi tettonici è venuto a crearsi il bacino lacustre,
che purtroppo oggi è in secca, se non nei periodi invernali (91).
Questo ha fatto sì che Lagoforano
non sia importante solo dal lato naturalistico ma anche da quello storico,
poiché negli ultimissimi anni ha suscitato l’interesse di alcuni particolari ricercatori.
Infatti, l’attuale livello di base della Conca è stato carotato per diversi
metri di profondità e analizzati i suoi sedimenti, sono stati individuati e
analizzati vari livelli con tracce della flora selvatica autoctona o coltivata
nelle sottostanti valli a partire da 10.000 anni addietro. Non a caso il Valico di Tacca Peppino, posto poco più
in alto, ha da sempre rappresentato un luogo simbolico e strategico per l’uomo,
da cui passava l’antica Via Regia di commercio e transumanza
(e anche militare) che collegava la
Piana di Sibari e la Piana di Policoro con il Pollino Orientale. Non è un caso,
infatti, che nel periodo di forte brigantaggio questo luogo fungeva da vero
magnete per latitanti e affini. (63)
Tutti i versanti del
gruppo, sia quelli esposti a S sia quelli a N, anche se notevolmente inclinati,
sono ricchi di una variegata vegetazione che ha permesso la formazione di vasti
e particolari boschi.
Nel versante N-O del
gruppo, nella così detta Fossa Lupara,
meta di numerosi e insigni studiosi botanici provenienti da ogni parte del
mondo, sono presenti diversi paleo-boschi (92). A cominciare dalle quote
più basse, con esposizione a settentrione, è presente il Bosco Francomano, composto dalle sole specie quercine; collegato ad
esso, ma in posizione più elevata e con esposizione prevalente verso N-E, si
sviluppa l’altro bosco detto di Bruscate-Difisa.
La prima parte è caratterizzata dalla presenza di specie miste tipo l’acero, il
cerro e l’ontano napoletano; nella così detta “Difisa” (93),
protetta (o meglio “difesa”, da cui il nome) con atti ufficiali sin dal 1700
dall’allora decurionato di Alessandria (64),
sono presenti ben sei specie di acero (di
monte, lobelius, napoletano, d’Ungheria, campestre e minore), per la
maggior parte centenari, con un diametro medio del tronco di 43 cm. Spostandosi
poi ancora di lato e verso N, ma con esposizione E, su una ripidissima ed elevata
valle detta Canale i verne (Canale
degli ontani), è presente, in maniera certamente strana, una ridente comunità
di piante di ontano napoletano. Sparsi poi fra i vari boschi, crescono
imponenti esemplari di tiglio, sorbo degli uccellatori, frassino, olmo, pioppo
tremolo, pruno selvatico e abete bianco (94). Per quest’ultima specie è
giusto dilungarci un po’. Nella Previtera
del Monte
Sparviere l’abete bianco, per l’eccessivo taglio perpetrato
abusivamente nel periodo successivo all’ultima guerra, è ormai diventato
rarissimo. Se però ci si sposta nella parte settentrionale del gruppo, cioè nel
versante N del Timpone della Neviera,
si può ancora facilmente capire com’erano ricoperte le quote più alte di questa
montagna. Qui è, infatti, presente l’ultimo residuo, esteso per qualche
centinaia di ettari, di quell’antica foresta che ricopriva tutto il Monte Sparviere, vista e descritta
nell’ottobre del 1861 dallo spagnolo Josè Borjès (65).
Sembra davvero di immergersi nel passato e non è un caso che la festa più
simbolica del paese simbolo dello Sparviere,
Alessandria, è da tanti secoli dedicata
interamente all’abete. Si chiama festa della pita, in altre parole “dell’abete”,
e si celebra, accompagnata con canti, suoni, balli e cibo tradizionale e in
maniera molto sentita e collettiva, l’ultima domenica di aprile e il 3 maggio
successivo. (66)
Gli altri boschi di una
certa importanza sono quelli della Bruscata
di Terranova-Valle Nera (specie dominanti querce e ontano napoletano),
quello di Lagoforano (specie dominanti
querce e aceri) e quello della Cannariata
(specie dominanti querce).
L’importanza però dei monti della Previtera non è soltanto legata
agli aspetti morfologici, botanici e paesaggistici, ma anche a quelli faunistici.
Durante una qualsiasi escursione, se si ha tempo a disposizione, costanza, pazienza,
tanta fortuna e soprattutto tatto, ci si potrà imbattere in numerose specie
tipiche dell’area, sia di una certa, per così dire, visibilità, che meno
appariscenti, alcune delle quali, come il lupo (95) e l’aquila reale, rarissime
altrove. Avere la fortuna di incontrare da vicino o da lontano un branco di
lupi di passaggio o davanti la loro tana non è cosa da poco; non tanto per la
rarità dell’evento, che già di per sé sarebbe qualcosa di favoloso, ma soprattutto
per il fatto che tale fortuna ci permetterebbe di fare un salto indietro nel
tempo, in un mondo difficile e selvaggio, almeno per quegli attimi
d’avvistamento. Questo per fortuna qui sullo Sparviere e nel Pollino
orientale in genere, grazie alle adatte condizioni ambientali, non è
soltanto un sogno e può avvenire. E’ più facile invece di incontrare, anche di
giorno e in luoghi antropizzati come le strade e le periferie dei paesi
(soprattutto in inverno), singoli esemplari, solitamente scacciati dal branco,
andati via o inviati in avanscoperta.
La presenza di lupi in
quest’area, che è un luogo di particolare importanza per la conservazione di
questi straordinari carnivori, oltre che dimostrata, purtroppo, da innumerevoli
stragi (67),
è avvalorata anche da seri e recenti studi portati avanti dai ricercatori
dell’Università “La Sapienza”
di Roma e coadiuvati da studiosi
locali. Tali studi, fatti con tecniche avanzate e innovative, hanno dimostrato
che negli ultimi anni il lupo ha avuto un considerevole incremento numerico, ma
questo non significa che la specie sia al sicuro dall’estinzione. Questo
perché, a mio parere, non si fa nulla di concreto per risolvere lo storico
conflitto fra uomo e lupo.
Diversi sono i corsi d’acqua
che dallo Sparviere hanno inizio che
nascono da numerose piccole sorgenti, omogeneamente sparse per il territorio. Alcuni,
come il Canale Maddalena-Malamorte e
il Vitria risultano affluenti di
altri torrenti o fiumare (in questo caso del Raganello e del Sarmento),
altri, come il Satanasso (68)
e il Saraceno (69),
sono indipendenti e dopo qualche chilometro dalle sorgenti si trasformano in
vaste, lunghe e ghiaiose fiumare che sfociano in maniera molto più maestosa nel
vicino Mare Ionio (96).
L’APITELLO
E IL CARNARA
Verso N-E, il gruppo montuoso
dello Sparviere presenta una lunga
appendice a crinale che partendo dal Timpone
della niviera, diramandosi fra la Valle
Sarmento-Sinni e le diverse valli della riviera ionica, conduce fino alle lontane
propaggini meridionali della Piana di
Policoro nel Golfo di Taranto. Il
crinale è stato da secoli utilizzato come via di comunicazione, da qualche
secolo detta Via Regia (70). Da questa si dipartono altre appendici secondarie. Una di
esse, quella del Monte Carnara, la più
vicina al gruppo originario, si diparte quasi parallela dal rilievo detto Timpone dell’Apitello (circa 1130 m s.l.m.) (96a),
posto nei pressi dell’abitato di Alessandria,
in Calabria, e termina sulla Fiumara Sarmento, nei pressi degli
abitati di San Paolo e Cersosimo,
in Basilicata. Nella sua parte
culminante, svetta spoglio, roccioso e rotondeggiante il Monte Carnara. Dai suoi non eccessivi 1282 m di quota, si può avere
una visione fra le più suggestive sui monti centrali del Pollino e sul gruppo principale dello Sparviere. Sono visibili persino il Monte Alpi, il Monte Sirino
e il Monte Raparo (Basilicata centro occidentale) e tutto
il Golfo di Taranto-Sibari. Altra
caratteristica è la presenza nella sua parte più settentrionale di un
lussureggiante e vasto bosco di farnetto e altre specie quercine, chiamato Bosco Capillo e in quella N-O dei così
detti dirupi marnosi e semi boscosi di Canale
Lappio, dove una colorata pianta, la peonia pellegrina, vi cresce in
maniera abbondante.
Questi rilievi, forse per
l’abbondanza di api e vespe, da cui l’antico nome, dato all’Apitello e le più prossime contrade, hanno
la peculiarità di essere stati scelti come punto di sosta da un particolare
rapace migratorio che in primavera si sposta dall’Africa in Europa, il falco
pecchiaiolo (detto anche adorno). Qui gli esemplari più
ritardatari si fermano per tutta l’estate e persino vi nidificano. Questo
importante avvenimento rende quest’area come quella più meridionale d’Italia di nidificazione per questa
specie, caso alquanto importante e sconosciuto ai ricercatori del settore (97).
ALTO
SARMENTO E IL CRINALE DELLE MURGE
Dal piccolo gruppo del Carnara è ben visibile tutta l’Alta Valle del Sarmento (98) che secondo il mio punto di vista
inizia in coincidenza della confluenza fra la stessa valle con il Canale Lappio che si immette nella
destra idrografica della Fiumara
Sarmento e che nasce proprio dalla parte orientale del Carnara. Più a monte, la fiumara riceve le acque del Canale di San Migalio, un tempo
importantissima contrada agricola che mette in contatto l’alto Sarmento con la riviera ionica cosentina.
Poco più in alto il successivo affluente, detto Canale della Vitria, si innesta con il Sarmento sempre dal lato destro, di rimpetto al vicinissimo paese
di Terranova. Le sue poche acque
perenni nascono sotto la vetta del Timpone
della Rotondella e, prima di mischiarsi con quelle del Sarmento, attraversano una profonda forra formatosi fra i
ripidissimi versanti fliscioidi. Fa parte di questo piccolo bacino anche il
versante Nord-orientale della stupenda “timpa” calcarea della Falconara e la rinomata località
agricola di Destra delle Donne (99).
Il Sarmento nasce da vari torrenti di Toppo Vuturo (1663
m s.l.m.) e di Serra
di Crispo (2053 m
s.l.m.), che si uniscono con molta acqua nella ricca contrada agricola-turistica
di Casa del conte. Gli immissari
principali sono il Canale della Duglia
e il Canale Cugno dell’acero,
avvolti da una lussureggiante foresta di faggi e mista di abete bianco e di faggio
(100).
A valle di Casa del Conte, a mo’ di enorme
muraglione, in senso opposto al corso d’acqua, fra terreni d’origine vulcanica,
calcarea e fliscioide, è presente nella parte più profonda una sorta di piccola
oasi di dura roccia calcarea quasi perfettamente divisa in due parti da una
profonda spaccatura, in cui le acque del torrente vi scorrono in maniera
rumorosa. E’ detta Garavìna e la sua
origine è strettamente legata a quella dei vicini picchi rocciosi della Falconara e di San Lorenzo i quali, con essa, sono perfettamente allineati, a
dimostrazione di un’unica comune sotterranea radice. Da sempre è stata amata
dall’uomo, quindi da tempo immemorabile abitata e l’integrità ambientale, unita
alla bellezza del posto, l’ha trasformata in una delle perle dell’intero Parco
Nazionale del Pollino (101).
La lunghezza del canyon non
supera i 500 m
e l’altezza delle sue pareti, i 150
m. Nel percorrere il suo fondo, fra l’altro in maniera
alquanto agevole, si avrà modo di rimanere incantati per le sue morfologie
fatte di pareti strapiombanti in cui si abbarbicano grandi esemplari di leccio
e vivono numerose specie animali (102). Pochissime e minuscole sono le grotte ma numerosi i
terrazzi in cui, se ben organizzate, possono essere effettuate altrettante
escursioni, sia semplici sia particolarmente impegnative e tecniche.
Il versante sinistro
idrografico della Garavìna, di
facilissimo raggiungimento, ha una minore superficie ma è senz’altro più adatto
alle visioni paesaggistiche sul canyon e sui monti; al contrario, quello
destro, essendo meno coperto dai terreni circostanti ha una morfologia più
complessa, pertanto, è più interessante dal lato escursionistico anche perché è
quello di più difficile accesso, a diretto contatto con aree più selvagge.
Il versante sinistro idrografico
dell’Alta Fiumara Sarmento in cui sono ubicati, da monte verso valle, gli
abitati di Terranova, San Costantino e Noepoli, culmina nella sua parte più elevata con un crinale che
divide detta valle con quella del Torrente
Rubbio, affluente come il Sarmento
del Fiume Sinni.
Dai 1526 m di quota della Serra del Prete del Monte Caramola, il crinale scende fino
alla confluenza con il Fiume Sinni (200 m ca. s.l.m.). Tra i
rilievi maggiori va citata la Timpa delle Murge, alta 1441 m (103), ma
va anche segnalata la cosiddetta Pietra
Sasso, particolare picco di roccia basaltica con una quota di 1362 m, due perle geologiche
dell’intero massiccio del Pollino. Quest’ultimo
s’innalza come un enorme dente (da cui il suo secondo nome Dente del Diavolo), perfettamente verticale da un lato per oltre 150 m. E’ un luogo davvero
fantastico e visibile da ogni parte, anche da una certa distanza. La morfologia
e la costituzione mineralogica dimostrano che questo picco rappresenta il resto
di un antichissimo camino vulcanico sottomarino (104).
Se bisognasse segnalare un
luogo nell’Italia meridionale dove
le rocce basaltiche e ofiolitiche si mostrano in maniera spettacolare, non
potrebbe che essere menzionato il Crinale
delle Murge, un vero museo geo-vulcanogico naturale.
Come dice il mio amico
Salvatore Martorano da Terranova, in
queste contrade […] si può rappresentare un’ideale
risalita di circa 10 km
dall’interno della terra, attraversando la crosta litosferica fino a
raggiungere i fondali oceanici. Qui si possono, infatti, osservare i prodotti
di eruzioni vulcaniche sottomarine avvenute nell’era mesozoica, quando
l’allontanamento della placca euro-asiatica dal continente africano ha dato
origine al mare della Tetide. Con i grandi movimenti orogenici dell’età
terziaria la crosta oceanica prodotta è stata smembrata e trasportata nell’attuale
luogo di rinvenimento insieme a un miscuglio di altri terreni…
Altre zone sono di simile
origine, sono tutte poste nelle vicinanze del Crinale delle Murge, come il Monte
Pelato posto nella vicina Alta Valle del Frido, la Pietra
Fronte (e altri simili picchi) posti nella parte
superiore dell’alta Valle del Raganello
e la Timpa Capàvahe
ubicata nella parte più alta della Valle
Sarmento, ma opposta al crinale in oggetto.
Camminando su questi
rilievi si possono facilmente incontrare rocce con forme e colori irreali;
questo accade soprattutto nel versante meridionale della Timpa delle Murge, dove si potrà chiaramente capire la formazione
geologica di questi luoghi: prodotti da eruzioni basaltiche sottomarine,
formanti pareti a cuscino di lava, sormontate da una copertura sedimentaria
fatta da rocce rossastre, bluastre e verdastre, generate dalla dissoluzione dei
radiolari (organismi a guscio siliceo). Si possono poi agevolmente individuare
anche i fanghi silicei depositatisi sui fondali oceanici a una profondità di 4.500 m e risalenti al
Giurassico (oltre 120 milioni di anni fa!).
Per osservare l’originalità
di queste rocce è consigliabile affacciarci anche nell’alveo del sottostante Torrente Sarmento (nei pressi della Garavìna), dove i massi lì trasportati
o precipitati, essendo a contatto diretto con l’abbondante acqua fluviale, si
sono erosi nella loro parte più tenera e ossidati, mostrando così il loro
coloratissimo e maculato aspetto, molto simile alla pelle di variopinti
serpenti (da cui il nome a queste rocce, appunto dette serpentiniti) (105).
Nei pressi del crinale, ma
dal lato del Rubbio, immersi in una
fitta vegetazione di faggi, sgorgano delle freschissime sorgenti d’acqua che
varrebbe la pena andarci solo per vederle. Nella località Fonte del Salinaro, grazie ad un bell’intervento dei locali operai
forestali, una freschissima fontana ci accoglierà inaspettatamente; nella località
Catusa, l’acqua che sgorga da
fessure rocciose ci farà capire l’importanza di questo bene prezioso.
Infine, poco oltre
quest’ultima sorgente, verso la vetta del Carnara,
fra piccole pareti rocciose sempre d’origine vulcanica, inglobate perfettamente
nel fitto del bosco di faggi, si apre la Grotta dei briganti, mitica per eccellenza,
anche detta dei Vitelli, piena zeppa
di mistero anche se piccolissima. Un’antica frase sibillina incisa nella parete d’ingresso e diverse firme di
visitatori post-ultima guerra, ci fa capire la sua importanza
storico-leggendaria. (71)
IL
CUORE DEL POLLINO
L’Alta valle del Sarmento e l’Alta
valle del Raganello sono da considerarsi il miglior posto di partenza per
raggiungere il cuore dei monti del Pollino
che per la loro particolare lontananza, bellezza e vicinanza al cielo ho voluto
trattare per ultimo in modo da concludere questo viaggio nella Terra di Marsilia in maniera speciale.
La parte più interna della Terra di Marsilia fa pienamente parte
del così detto “cuore” del Massiccio del
Pollino. E’ il luogo montano nel vero senso della parola, puro e incontaminato,
molto aspro e isolato, grande meta, nell’antichità, dei cercatori di piante
medicinali (72).
Vasti e fitti boschi di
faggio o misti di faggio e abete bianco e rigogliose praterie d’alta quota
fanno da cornice ai rilievi principali, i quali per la maggior parte superano i
2000 m
di quota. Agli ultimi “pionieri” di faggio, che a vederli sembrano molto
soffrire abbarbicati su quegli alti versanti, si mescolano e sostituiscono
imponenti e arcaiche piante di pino loricato, che proprio in queste alte quote
offrono il meglio di se stessi (106).
Sono tanti i luoghi di
particolare pregio. Oltre alle vette, sicuramente fantastiche, si segnalano i
pianori erbosi detti Piana del Pollino
e Piano Toscano (107). Il
primo, posto a occidente dello storico valico della Grande Porta di Pollino, fra, e sottostante, la vetta di Serra delle Ciavole e Serretta della porticella, è un vero e
proprio altopiano con una quota costante di circa 2000 m. L’altro, confinante e
sottostante al precedente, è una vastissima valle chiusa con base
particolarmente estesa e pianeggiante, con una quota nel suo punto più basso di
circa 1800 m,
nella quale è presente un inghiottitoio inesplorato detto Trabucco del Pollino o Fossa
del Lupo (73). In questo avvallamento racchiuso e
dominato dalle tre principali vette del gruppo Serra Dolcedorme, 2267
m, Monte Pollino,
2248 m
e Serra delle Ciavole, 2167 m, circondata da una copiosa
vegetazione, composta da alberi di faggio e vetusti pini loricati, ai bordi
esposti a nord, qualche milione di anni fa si sono depositate numerose morene,
ormai fossili, testimonianze di remote glaciazioni (108).
Bellissimi sono i valichi
della Grande Porta del Pollino (109) e
delle Ciavole (110) e i
luoghi che li precedono o li susseguono, come il piccolo pianoro di Acqua fredda e poco più a valle quello
detto di Fossa, il cui nome ci fa
capire la sua caratteristica principale e cioè una ricca presenza di doline. Entrambi
sono posti nella profonda e verde valle formatasi fra la Serra Dolcedorme e la Serra delle Ciavole (111) e coincidono con la parte
più interna e alta del vastissimo bosco di faggi detto Fagosa, la cui caratteristica principale oltre ad essere
notevolmente compatto e vasto, è la presenza al suo interno di piccole radure e
soprattutto la stupenda cornice offerta dai versanti orientali e settentrionali
delle principali vette del Pollino e
dalle sottostanti Gole del Raganello
dominate dall’immensa e verticale parete di Timpa di San Lorenzo (112). Qui si è anche direttamente collegati con il lungo e
acuto crinale che dal Dolcedorme
scende prima alla Manfriana e infine
al Monte Moschereto e di conseguenza
nel Basso Raganello e nell’Alta valle dell’Eiano.
Spostandoci poi verso N,
alle pendici N-O della Serra di Crispo,
nella parte sommitale della Valle del
Sarmento, oltre alla Crispo
stessa e alle sue grotte (74), vi è il luogo detto Pietra castello e il sottostante Bosco di Duglia-Cugno dell’acero
composto in prevalenza da specie miste faggio-abete e da cui scaturiscono,
copiose, le sorgenti del Torrente
Sarmento. Il grande picco roccioso del
castello, come il resto delle rocce “frantumate” di Serra di Crispo, è di origine calcarea. Su di esso si abbarbicano imponenti
esemplari di pino loricato che dominano dall’alto, a mo’ di castello, appunto,
detta foresta (113).
A monte, fino alla vetta di Serra di
Crispo, sono presenti i luoghi più selvaggi e aspri di tutto il Pollino, in parte brulli e soprattutto
rocciosi, pieni di doline, avvallamenti, anfratti, pareti, dirupi; senza
sentieri; un luogo insomma di …briganti, come del resto lo è stato a metà ottocento
(75)!
L’antico tracciato della via dei pellegrini, detta anche “Ruepinc” (purtroppo dal
nome della società che a inizio ‘900 tagliò quel bosco) fa pressappoco da
cerniera fra i boschi e le soprastanti vette rocciose. I fedeli partivano dai vari
luoghi della riviera ionica cosentina per recarsi all’importantissimo Santuario della Madonna del Pollino, luogo alquanto amato e venerato da tutte le
popolazioni dell’area calabro-lucana (76).
Ancora più a oriente si
eleva la verde vetta di Toppo Vuturo
e poco prima si aprono nell’intenso verde del bosco i pianori di crinale detti
di Cardone e Giumenta, notevolmente vicini alla Timpa della Falconara (114). L’area del Vuturo, dal nome locale dell’avvoltoio degli agnelli, che qui
viveva, è facile da raggiungere perché posta al centro di un vasto territorio e
per questo da sempre strategica (77) e bella da gustare, dato che la sua
natura può definirsi dolce, per l’assenza di accentuati pendii e la presenza tutt’attorno
di vasti e fitti boschi di faggio intervallati da pianeggianti e grandi radure,
oltre ovviamente alla presenza di visuali tipiche montane.
Ma di tutte queste bellezze
della parte alta della Terra di Marsilia
a me piace raccontarvi soprattutto di alcuni strani esseri che sono un’arcaica testimonianza
di antiche ere, soprattutto quella Triassica (circa 200 milioni di anni fa). In
Italia si fanno vedere solo nell’Appennino
lucano e per la precisione nel tratto di confine fra le regioni Basilicata e Calabria, ma qui nella Terra
di Marsilia sono presenti in maniera spettacolare. Nel resto del mondo li
si può ammirare, sempre in maniera mastodontica e emozionante, nella vicina
terra dei Balcani, fra Albania, Grecia e Cossovo. Sono quindi
esseri rari. (78)
Per chi non l’avesse ancora capito, sto parlando degli
ultrasecolari alberi detti Pini loricati, “morfologicamente”
molto particolari: robusti, tozzi, maestosi, imponenti ed irregolari con rami a
volte quasi più robusti del tronco (115); quest’ultimo è solitamente
eretto, sempre massiccio e con un poderoso e forte apparato radicale; raggiungono
un’altezza di 40 m
e un’età di oltre 1000 anni (116); molti esemplari hanno un diametro del tronco, ad
altezza d’uomo, di oltre 1,70
m; possiedono poca ma densa chioma, prevalentemente a
forma piramidale ma irregolare. Cresce in stupendi luoghi, ma solo in terreni e
rocce di origine calcarea, soprattutto in zone rocciose, anche particolarmente
esposte, alte e fredde. Molti pini crescono oltre i 2000 m ma molti altri
cominciano a essere presenti anche in zone così dette mediterranee, a partire
dai 500 m
e non ha importanza se il luogo di crescita è esposto a sud oppure a nord. Si
tratta quindi di una pianta molto adattabile, forse unica anche da questo punto
di vista.
Il suo legno è davvero
eccezionale. Paradossalmente, una volta morto, l’albero rimane in piedi
moltissimi anni, forse anche cento; per la sua elevata e particolare
resinosità, non marcisce facilmente. Questo dona ai luoghi in cui cresce un
qualcosa in più, rendendoli ancora più attraenti. Può sembrare strano ma è
davvero affascinante beneficiare di una visione mista di pini morti e pini vivi
(117).
Non a caso quest’albero è stato scelto come simbolo del Parco Nazionale del Pollino.
Chi deciderà di visitare la Terra di Marsilia e del Pollino in genere non può fare a meno di organizzare un’escursione
per ammirare i pini loricati. Si tratta fra l’altro di tragitti facili, ma in
ogni caso (ed io aggiungo “per fortuna”), i pini loricati non sono raggiungibili
con le autovetture. Il tempo di percorrenza per arrivare a contemplarli non è
da considerarsi eccessivo, solitamente non supera le due ore di sola andata e
la quota minima da raggiungere è di 1500 m, ma di solito si toccano di solito i 2000 m.
Ma come mai è quasi
indispensabile parlarne e convincervi ad andare e far loro una visita?
Il pino loricato è quasi un
fossile vivente, arrivato miracolosamente fino a noi dall’ultima glaciazione e
già questo la dice lunga. Le sue forme, il tronco, i rami, i luoghi in cui
cresce, uniti alla quasi millenaria longevità della maggior parte degli
esemplari, sono un vero e proprio piacere, un trionfo della natura, fanno
insomma del bene allo spirito, almeno ai più sensibili. Per questo genere di
persone, quindi, i luoghi in cui crescono, sono quasi un paradiso, un luogo da fiaba,
dove ci si sente davvero piccolissimi e inermi, ma in tutta tranquillità e
felicità, soddisfatti e felici di aver raggiunto la Grande porta del Pollino (118), la Serra di Crispo, la Serra delle Ciavole, la Serra Dolcedorme (e anche la Timpa di San Lorenzo) e di averle trovate
identiche a com’erano migliaia di anni fa.
Gli antichi popoli
mediterranei non a caso rappresentavano la casa degli Dei nelle alte vette. Il Pollino per i greci e i romani non fu
indifferente e nemmeno agli escursionisti attuali che hanno spontaneamente
appellato il luogo dove crescono con maggiore vigore, la Serretta della Porticella, il …giardino
degli Dei (119).
Ma per dare una maggiore idea
dei posti che si attraversano e delle relative sensazioni che si potranno
provare, voglio sottolineare che alcuni miei amici hanno definito questi alberi
come dei “Davide del Pollino”, oppure
come degli “esseri spogli che sembrava avessero una mano pronta
per acchiappare ogni cosa che gli passasse vicino; con i capelli spettinati e
che si fossero appena alzati dal loro letto formato da fogliame secco per
cercare da mangiare nelle sottostanti vallate”.
La definizione che ancora
meglio ci farà capire di che si tratta è venuta però dalla penna del mio amico
faentino Lorenzo Brandolini:
ALLA CORTE DEI PATRIARCHI – …Un’ultima salita e finalmente conquistiamo i Piani del Pollino, quest’originale
altopiano a catino, coronato e nascosto come un prezioso segreto dalle
principali vette del Parco.
“Ma la conquista è solo una parola priva di significato, solo un’illusione.
Prima di noi e prima di qualunque altro essere umano che avesse mai messo piede
in quelle plaghe, i Piani erano stati già conquistati da grandiosi esseri che
li avevano difesi e conservati per millenni senza mai muoversi”.
I pini isolati possono già suscitare un senso di forza, grandezza,
resistenza, ammirazione, ma vedere tutti insieme quelli che ricoprono Serra di crispo e delle ciavole, prima da lontano poi portandosi rispettosamente ai
loro piedi, nasce quasi un’inquietudine, come di fronte a un esercito immobile
di giganti.
I pini loricati occupano le creste delle serre e i versanti
che guardano i Piani di Pollino e Toscano, sono radi, mai fitti, molti sono scortecciati perché
secchi e mostrano in tal modo il loro tronco di un bianco abbagliante alla luce
intensa del sole.
Man mano che ci avviciniamo ai grandi pini, ci viene in mente una storia
che non ci hanno mai raccontato; forse sono i pini stessi, e il vento, che la
sussurrano alle nostre orecchie, per dirci che quello è sempre stato regno loro
e che tale dovrà rimanere, con l’aiuto di quegli uomini che sanno ascoltare
queste voci e che sanno tramandarle.
Questa è la storia: << Arrivò in queste terre, ancora spoglie, un
esercito di avanguardie, non di uomini, ma di strani soldati possenti,
immobili, dotati di eccezionali e inquietanti corazze. Non formarono una
barriera impenetrabile, ma ciascuno prese la sua posizione, il suo spazio
vitale, distante dagli altri, sfiorandosi solo con i lunghi e robusti rami
orizzontali, simili a frecce pronte ad essere scoccate; un esercito immobile,
silenzioso, che ricevette l’ordine di difendere e conservare il territorio
conquistato, senza mai abbandonarlo, a costo della vita, di fronte a qualsiasi
nemico. Ma il vero e unico nemico è stato solamente uno, piccolo ma
invincibile, l’uomo. E molti soldati caddero in quella lunga battaglia, e
furono estirpati dal loro regno senza poter neppure trascorrervi l’eternità.
Altri ancora sono stati vinti dal tempo, ma non hanno abbandonato le loro
radici e i loro compagni ancora vivi, e svettano ancora oggi, privi di corazze,
memori del comando ricevuto, a monito di tutti coloro che pensano che quelle
terre siano ancora da conquistare >>…
Ecco perché credo che i pini loricati siano quegli “alberi della dimenticanza”
che la “malafemmina” Marsilia utilizza per influenzare gli uomini in modo da
far capire loro che vi sono cose molto più importanti di quelle materiali.
Concludo questo mio
racconto, certamente incompleto, da Serretta
della porticella, sperando che vi sia piaciuto. Il mio sguardo è verso
oriente, dove dalla cima del Monte
Sparviere, mio luogo d’origine, nasce, splendido, l’intenso sole
mediterraneo, illuminando da tempo immemorabile questa stupenda Terra di Marsilia (120).
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