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Natura e cultura sui sentieri dei briganti - II Edizione


 

“Natura e cultura sui sentieri dei briganti nel Parco Nazionale del Pollino” II Edizione


L’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”, ripercorrendo i sentieri del Parco nazionale del Pollino percorsi dai briganti fra il 1860 e il 1865, non vuole mettere in discussione l’unità e l’esistenza dello Stato nazionale, ma piuttosto continuare una riflessione sul modo in cui quell’unità si è realizzata e sulle conseguenze che ne sono risultate e ne risultano per l’economia e la società del sud del nostro Paese.
Programma dell’iniziativa:
·         lunedì 12 agosto ore 15 ritrovo dei partecipanti a San Lorenzo Bellizzi, Rione Sgrotto, Piazza Aldo Moro. Transfert in pullman al Santuario della Madonna del Pollino, nel territorio di San Severino Lucano. Cena libera e pernottamento in rifugio o tenda.
·         Martedì 13 agosto: ore 6 colazione, ore 7 partenza del gruppo, guidato da Antonio Larocca, verso la prima tappa, alla Falconara.
·         Mercoledì 14 agosto: dopo la prima colazione, ore 6, il gruppo proseguirà verso la seconda tappa, la Maddalena, attraverso la Scala di Barile.
·         Giovedì 15 agosto: ore 6 prima colazione, ore 7 partenza verso la destinazione finale, nei pressi del villaggio calabro-albanese di Civita, da dove i partecipanti saranno trasferiti in pullman a San Lorenzo Bellizzi. Cena, musica, pernottamento in tenda.
·         Venerdì 16 agosto: in mattinata, escursioni e iniziative varie. Nel pomeriggio e in serata, animazioni e dibattito in piazza sul plebiscito per l’unione dell’ex Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia.
Durante ognuna delle tre tappe saranno effettuate soste lungo il percorso e sarà consumato un pranzo al sacco. L’arrivo è previsto nel tardo pomeriggio. La sera, montate le tende, ci sarà la cena, un dibattito, la musica.
Modalità di partecipazione
Per la partecipazione all’iniziativa l’associazione organizzatrice richiede 150 euro, che comprendono la guida lungo i sentieri del Parco, tre colazioni, tre pranzi al sacco, tre cene, i trasferimenti in pullman, l’organizzazione dei bivacchi, il trasporto delle vettovaglie, delle tende, delle persone impossibilitate a partecipare alla marcia ma interessate al resto del programma, degli strumenti, la preparazione dei pasti, la musica, le escursioni. La data limite per iscriversi è il 5 agosto 2013. Ogni partecipante dovrà essere munito di normale abbigliamento trekking e di materiale per il pernottamento. Chi non dispone di tenda usufruirà di quelle fornite dall’associazione. Saranno accettate e confermate le prime 50 iscrizioni che, unitamente ad un anticipo di 50 euro, dovranno pervenire all’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi” tramite bonifico (codice IBAN IT16 J076 0116 2000 0000 5054 950) o sul CC n°5054950 intestato all’Associazione “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”, Via Adua n°51 – 87070 SAN LORENZO BELLIZZI (COSENZA) specificando la causale “Partecipazione a Natura e cultura. Tre giorni sui sentieri dei briganti nel Parco Nazionale del Pollino. II Edizione” entro e non oltre il 5 agosto 2013. Ricevuta dell’avvenuto versamento dovrà essere inviata via e.mail a iragazzidisanlorenzobellizzi@gmail.com. L’iniziativa sarà segnalata sul sito dell’Associazione www.iragazzidisanlorenzobellizzi.org e su Facebook.  Per ogni ulteriore informazione, rivolgersi a Enzo Agrelli, tel. cell. 3453429896 TIM, oppure 3936728827 VODAPHONE. 

                                                                                   Il presidente dell’associazione
                                                                                 “I ragazzi di San Lorenzo Bellizzi”
 
                                                                                          San Lorenzo Bellizzi
                                                                                      




NELLA TERRA DI MARSILIA    (tratto da:  www.marsilia.eu


Un viaggio nella Valle del Raganello e nelle sue contigue terre



(Parco Nazionale del Pollino)



In ogni racconto può esserci una storia d‘amore.

In questo vi è la mia storia d‘amore

con la mia terra d’origine.



Vi è un luogo nella Valle del Raganello (1) che la gente del posto chiama Jacca i varìle (Spaccatura dei Barili) (2). Qui è ubicata una grotta che fu scelta come dimora dalla bellissima Marsilia (3), definita dalla cultura cattolica femminile “malafemmina“ ossia donna di facili costumi, e per questo invisa al gentil sesso. è però anche custode, in quella sua grotta, d’inestimabili ricchezze e tesori, in primis la famosa chioccia con i sette pulcini tutti d‘oro massiccio (1) datale in consegna dal capo brigante Antonio Franco (2). Secondo il mio punto di vista, Marsilia, come la più famosa Circe e molti altri simili personaggi (3), è invece un‘ammaliante e seducente creatura. Di conseguenza chi la incontra se ne innamora pazzamente, sedotto dai suoi poteri che sono inoltre rafforzati dai così detti àrive du scùerde (alberi della dimenticanza), nel cui bosco Marsilia può apparire, e che vengono usati per far dimenticare agli uomini tutte le monotonie della vita quotidiana e l’eccessivo materialismo, rammentandoci nello stesso tempo che i veri valori, quindi gli effettivi tesori, sono l‘ambiente naturale e, soprattutto, l‘amore in tutti i sensi e verso ogni cosa.

Alcuni identificano questi alberi con i pini loricati, similmente seducenti e magnetici e certamente non sbagliano. Altri li identificano con gli alberi in genere e in modo particolare con quelli che crescono in maniera incredibile sulle imponenti pareti strapiombanti delle timpe della valle e che contornano, come per nasconderlo, l’Antro di Marsilia (4). A me piace identificarli nei pini loricati che crescono nella verticale e impressionante parete di mezzogiorno di Timpa San Lorenzo (4), non a caso posti quasi dirimpetto alla grotta e quelli che svettano, poco più lontani, imponenti e maestosi, sulle vette più alte del Pollino (5).



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Identifico la Terra di Marsilia (6) con il cuore orientale dei Monti del Pollino (7), nella cui parte sommitale s’innalzano le alte vette del Dolcedorme (8), delle Ciavole e di Crispo (9) e centralmente s’inabissa la spettacolare Gola del Raganello (10). Tutto attorno, oltre lo spartiacque che delimita lo stretto e lungo bacino idrico del Raganello, una serie di altrettanto interessanti territori le fa da cornice.

Di là oltre le vette più elevate, verso ponente, si sviluppa la parte occidentale del cuore dei monti del Pollino, vasta, boscosa, selvaggia e bellissima. Da settentrione a oriente, a cavallo fra le regioni Calabria e Basilicata, è presente l’alta Valle del Sarmento (11), il Monte Sparviere (con le sue valli del Saraceno e del Satanasso) (12) e poco più a sud il Monte Sellaro (13). Infine a mezzogiorno, a mo’ di grande verticale muraglione, s’inerpica, verso la Terra di Marsilia, l’Alta Valle dell’Ejano culminante con il Monte Manfriana, che delimita nettamente l’idrografia (14). Tutti territori che da qualche decennio sono stati inseriti, a ragione, nel Parco Nazionale del Pollino (5).

Nonostante la vicinanza al Mare Ionio (15), si tratta di un territorio particolarmente aspro e montuoso, ricco di boschi, di una flora e fauna particolare (6), torrenti, fiumare; con abbondante acqua sorgentizia, imponenti e impressionanti pareti e picchi rocciosi, le cosiddette “timpe” e grandi grotte, alcune profonde quasi 700 m. Ricchissimo di sole e luminosità, il suo territorio è compreso fra i 300 m s.l.m. del letto delle fiumare e i 2200 m e oltre delle vette più elevate. I terreni sono in prevalenza di origine calcarea (16) e gli altri di natura fliscioide (16a), ma vi sono anche discrete presenze di rocce vulcaniche (16b).

Dalle quote più elevate e interne, dove si elevano le vette che superano i 2000 m, una serie di lunghi e stretti crinali si diramano verso oriente in direzione dello Ionio. In poco più di 30 km si passa dalle alte quote (17) al mare (18), tra una serie di rilievi quasi del tutto isolati fra loro; caratteristica questa che li rende particolarmente visibili e soprattutto apprezzabili dal punto di vista paesaggistico. Tutte le vette lungo questi crinali sono intervallate da altrettante creste longilinee, con quote minime che scendono a volte anche sotto i 900 m. Avendo queste montagne quasi tutte delle direttrici O-E e l’assenza, come si è detto, tutto intorno di altri rilievi, nei loro relativi versanti, secondo i casi, può esserci un clima particolarmente freddo, temperato o caldo, con una vegetazione arborea abbondante e molto variegata. Al contrario, lungo tutti i crinali, siano essi a basse o alte quote, causa i forti e duraturi venti invernali del nord, la vegetazione arborea è quasi del tutto sostituita da quella erbacea, anch’essa ricca e folta. Rinomate sono, infatti, le praterie di crinale (18a).

Tutto ciò ha prodotto una netta diversificazione di paesaggi, con corsi d’acqua a torrente, a fiumara e a canyon. Nei terreni flisciodi del Monte Sparviere e vulcanici del Crinale delle Murge e Serra Scorsillo, scorrono o nascono le cosiddette fiumare, vaste, ghiaiose e pianeggianti (19) e i classici torrenti. Nei rimanenti terreni calcarei, hanno preso forma in maniera maestosa i canyon (20).

Le fiumare sono delle vere e proprie “autostrade naturali”, di facile accesso, ed hanno la particolarità di avere un micro clima caldo, anche in pieno inverno.

I canyon sono contornati invece da altissime pareti rocciose e quindi offrono una visione decisamente “mozzafiato”. A differenza delle fiumare, il loro letto e i versanti, a volte, come nel caso di alcuni loro affluenti, sono inaccessibili senza l’ausilio di corde e relative tecniche di progressione speleo-alpinistica (21).



Nonostante l’aspro e isolato territorio, per la maggior parte montano (che potrebbe far pensare a un disinteressamento da parte dell’uomo), una delle componenti caratterizzanti della Terra di Marsilia e delle aree limitrofe, è l’estrema varietà di risorse storico-archeologiche offerte dalle sue contrade in cui sono presenti chiare tracce di una lunga serie di frequentazione umana che abbracciano quasi tutte le epoche (22).

Vecchi e recentissimi studi hanno dimostrato che l’uomo si è affacciato in questi luoghi sin dalle epoche più remote. Nella Grotta del Caprio (7) che si apre nel territorio comunale di Francavilla Marittima, sono stati individuati numerosi e antichissimi reperti. Sempre dallo stesso territorio è avvenuta la scoperta certamente più sensazionale e importante non solo dell’area ma dell’intera Sibaritide. In località Timpone della Motta e Macchiabate (8), sono ubicati un insediamento e la relativa necropoli, risalente all’età del Bronzo (ca. 1500 a. C.), entrambi strettamente legati, nella loro seconda fase esistenziale, alla vicinissima e mitica Sybaris (9). Alcuni studiosi hanno identificato questo antico insediamento con la leggendaria Lagaria, città enotria e famosa nell’antichità per il suo squisito vino.

L’equivalente del sito di Motta-Macchiabate è certamente il cosiddetto sito di Castello di Cersosimo, ubicato sul versante lucano del Pollino nord-orientale (10).

Altro antico insediamento che merita menzione, certamente legato alle sovrastanti opere difensive e forse anche abitative di Timpa Porace-Cassano, è quello detto di Palmanocera, che si trova nel comune di Civita ma notevolmente vicino a San Lorenzo Bellizzi. Il luogo è incantevole e solo i monaci bizantini potevano sceglierlo come loro sacra dimora (11).

Ma le ricerche archeologiche che certamente meritano un particolare elogio sono senza alcun dubbio quelle eseguite dagli studiosi del Raganello Archaelogical Project (RAP), una particolare équipe composta da archeologi, geologi, topografi, ecc., proveniente da ogni parte d’Europa, egregiamente diretta dal prof. Attema e van Lausen dell’università di Groningen (Olanda) (12) e guidata per le contrade da noi speleologi del Gruppo Speleologico Sparviere (13).

Eredità di tutti questi antichi popoli e dei loro insediamenti sono gli abitati attuali di San Lorenzo Bellizzi (14), Civita (15), Terranova di Pollino (16), Alessandria del Carretto (17), Plataci (18), San Paolo Albanese (19), Cersosimo (20), San Costantino Albanese (21), Cerchiara di Calabria (22), Francavilla Marittima (23) e Frascineto (24), ben diffusi e posizionati omogeneamente, per la maggior parte, come anche i loro rispettivi insediamenti agro-pastorali, piccoli o piccolissimi, molto caratteristici, ricchi di tradizioni (25) e tradizionalmente ospitali. Alcuni abitati sono prettamente di origine italica, gli altri, ma solo le popolazioni, di origine albanese (emigrate in Italia a partire dal sec. XV). Di conseguenza la lingua qui parlata è diversa da paese a paese (26). La gente è con il forestiero generalmente ospitale, con un’innata voglia di intrattenersi con loro; molto compatta all’interno dei propri clan, è all’esterno diffidente, comportamento certamente arcaico ma anche derivato da secoli di angherie e soprusi. In generale però con i miei conterranei ci si sta proprio bene.



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LAGOFORANO



Ora possiamo iniziare il viaggio, e non si può che farlo partire da quel luogo visitato da me ragazzino e che ha influenzato tutta la mia vita.

Il giorno di “pasquetta” (classico giorno d‘esplorazione dei ragazzini della mia generazione) di tanti anni addietro, con dei coetanei, mi avventurai sugli Altopiani di Lagoforano, posti sul Monte Sparviere (23). Li giunto, nel vedere verso mezzogiorno e occidente quelle immense e chiare montagne rocciose contornate da verdi paesaggi, mi chiesi cos’erano e mi rimasero in mente perennemente (23a). Lo capii ben presto quando, poco tempo dopo, con mio padre e con mio cugino Felice ci recammo, con una sgangherata jeep, in uno di quei luoghi, molto rammentato dagli anziani. Appena superato l‘ultimo colle, tutto a un tratto capii che il mio destino era segnato: <<questi luoghi faranno per sempre parte della mia vita>> mi dissi e così, infatti, è stato. Di Marsilia allora, giovanissimo, non me ne potevo ancora accorgere, ma ugualmente, quell‘impressionante e nello stesso tempo attraente paesaggio, pieno di mistero e fascino, m’invitò a esplorarlo. Da allora non riesco più ad allontanarmene. Eravamo giunti alla cosiddetta Timpa della Falconara (24), posta in piena Terra di Marsilia, che nella cultura locale ha sempre rappresentato il luogo leggendario per eccellenza e per me anche simbolico. Fu la prima vera “timpa” (27) vista e toccata da vicino, che sognavo di notte e irraggiungibile per la mia giovane età e la sua fama.



LA FALCONARA



La Falconara per molte popolazioni dei paesi del circondario, compresa la mia Alessandria, ha sempre rappresentato il limite massimo che l’uomo poteva raggiungere, una vera e propria barriera naturale, con a guardia spiriti maligni e dimora di briganti. Un luogo inaccessibile ma nel contempo, e paradossalmente, per sfuggire da ingiuste leggi, un luogo protettivo (28).

Ma la sua attrazione per me, e sicuramente per tantissimi altri, è dettata anche dall’aspetto naturalistico. Se pure pericolosa, è davvero bella e affascinante, ricca di attrazioni e generosa di regali, primo fra tutti lei stessa! (25)

E’ di natura calcarea, frutto di spinte tettoniche compressive, che hanno portato al sollevamento del sub-strato calcareo originario e che ha permesso di farla sollevare per ben 1656 m s.l.m., in maniera fra l’altro originalissima, con un dislivello medio fra la vetta e i terreni circostanti di ca. 300 m. La sua forma è pressapoco a piramide ma con due vertici. Dal lato N-E, l’originale piattaforma pianeggiante, ha una pendenza media del 45% a “franapoggio” (26); dal lato meridionale, invece, si presenta come una parete perfettamente verticale e stratificata a “reggipoggio”, alta quasi 300 m (26a); il terzo e ultimo versante, quello occidentale è di più facile approccio, direttamente collegato allo spartiacque di Toppo Vuturo, quindi meno elevato rispetto agli altri, quindi una via di mezzo dove medie pareti rocciose si alternano e si inglobano a vasti e piccoli terrazzi coperti in parte da alberi di faggio. Tutti i versanti convergono nelle due e vicinissime vette presenti: quella principale, posta a meridione, è alta 1656 m, quella settentrionale, ossia la minore, è invece di 1596 m.

Il tipo di calcare presente (Giurassico-Cretaceo), particolarmente stratiforme, ha permesso la formazione di diverse grotte, per la maggior parte piccolissime, ma una di esse, la Grotta della Falconara, ha discrete dimensioni (29).

La vegetazione arborea di una certa consistenza è assente nella parte rocciosa ma è sostituita da numerosissime specie erbacee di ogni tipo, soprattutto aromatiche e grasse e da arbusti “nani” o striscianti, che trasformano la Timpa della Falconara in uno stupendo giardino roccioso direttamente a contatto con il cielo (26b).

Questo imponente massiccio roccioso si eleva a cavallo dello spartiacque fra la Valle del Raganello, posta verso Sud e la Valle del Sarmento, posta invece a Nord, che dal Monte Sparviere (1713 m s.l.m.) conduce fino al cuore del Pollino, su Serra di Crispo (2053 m s.l.m.). Verso mezzogiorno un altro sottostante crinale terroso, che copre una comune radice calcarea, la collega con la Timpa di San Lorenzo (27), sua consorella maggiore, che comincia a elevarsi, imponente, poco oltre la parte più bassa del crinale, in corrispondenza del valico di Colle di Conca (1340 m s.l.m.), il quale mette in comunicazione il piccolo e secondario bacino del Torrente Maddalena (affluente del Raganello medio) con l’Alta Valle del Raganello, nella cui parte iniziale qualche secolo addietro i sallorenzani vi hanno edificato, in un meraviglioso rilievo, la piccola Chiesa di S. Anna (30). Proprio dalla chiesetta si diparte un antico sentiero detto Passo della Lamia, davvero bello che dopo aver lambito l’ingresso del Canale Marcantonio, uno degli affluenti verticali del Raganello, tramite una ripida e lunga discesa a strapiombo che taglia quasi in due l’altissima parete meridionale di Timpa San Lorenzo, dove è presente la mitica ed inesplorata Grotta dei Briganti, conduce fino all’alveo del fiume, all’imbocco a monte delle Gole di Barile per connettersi successivamente ad un’altrettanta originale mulattiera detta “di Barile”, che più avanti tratterò.



LA SALLORENZO



Quando devo parlare o scrivere della Timpa di San Lorenzo mi si apre il cuore. Sento davvero che mi appartiene e che queste mie emozioni vanno assolutamente passate agli altri poiché sono convinto che tali sentimenti migliorino l’animo di ognuno di noi e di conseguenza la società. Questa “timpa” é il mio vero luogo sacro e magico del Pollino, dove madre natura ha egregiamente dimostrato la sua grandezza e bravura e dato il messaggio agli uomini che sulla terra esiste il paradiso! Godere da quassù un’alba o un tramonto è un’esperienza davvero indimenticabile soprattutto se si scelgono i giorni a cavallo della notte di San Lorenzo (28). La Sallorenzo, come confidenzialmente la chiamo, è davvero un luogo paradisiaco e non esagero.  Alta 1652 metri è posta al centro dell’altrettanto stupenda alta Valle del Raganello, il vero cuore della Terra di Marsilia. La sua strabiliante morfologia, a forma di un’enorme e nuda piramide con pareti che superano anche i 1000 m di dislivello (28a), domina in maniera maestosa tutto il circostante territorio. Dalla sua vetta, si possono godere: i verdi fianchi del versante meridionale del Monte Sparviere, la rocciosa cima del Monte Sellaro, le vette principali del cuore dei monti del Pollino con all’orizzonte, proiettate le sagome degli imponenti alberi di pino loricato e sottostante, la vastissima foresta di faggi detta Fagosa; l’appuntito e verde Toppo Vuturo; l’altrettanta spettacolare parete Sud della Timpa della Falconara. Altri interessanti elementi da segnalare sono i tre affascinanti crinali presenti che dividono i vari fianchi. Quello che separa il versante meridionale da quello N-E, per la sua morfologia (come un vero e proprio angolo molto acuto) e per la maestosità dei paesaggi visibili, rasenta l’incredibile. Soprattutto il paesaggio è dominato dalla Sallorenzo stessa, luogo di sogni e riflessioni, dove solo gli uomini migliori si trovano a loro agio. E’ l’ultima dimora dell’aquila reale, maestoso rapace, degno della maestosità dei posti in cui vive e si nasconde. Non ci sono certamente molti esemplari ma questo è dovuto non tanto alla passata distruzione operata dall’uomo ma alla estensione del territorio stesso. In effetti, quest’area non è eccessivamente ampia, o almeno non sufficiente per la nidificazione e la caccia di più di due coppie. E’ in questo luogo che bisogna recarsi se si vuole avvistare qualche aquila reale, ma non crediate però che sia così facile. Oltre ai posti che sono particolarmente di difficile penetrazione, il rapace è molto schivo e intelligente. Ha capito che meno si fa vedere da vicino meglio è per lei. Di tanto in tanto però, e soprattutto nelle giornate chiare, sia d’inverno sia d’estate, è possibile avvistarla nella profondità del cielo o appollaiata su qualche picco. E’ inconfondibile; non avrete dubbi nel riconoscere la sua maestosità. Del resto oltre che schiva, è, paradossalmente, molto vanitosa. Spesse volte sembra infatti che ti voglia dire: <<guardami come sono bella ed imprendibile>>. Ha pienamente ragione! Quando più volte ho avuto modo di vederla, è stato come se il tempo si fosse fermato; tutto si dimentica poiché essa attira la nostra attenzione come un magnete. Ti guarda per qualche secondo e con molta calma e sicurezza spicca poi il volo lasciando solo la possibilità di ammirarla ancora per qualche minuto nel baratro delle Gole di Barile, lasciando in compenso un ottimo ricordo (29).



Nonostante la complessità naturalistica, la struttura geo-morfologica della Sallorenzo è alquanto semplice. Come tutti gli imponenti picchi e pareti della valle, ha avuto origine molti milioni di anni addietro da sedimentazioni di microrganismi con guscio calcareo. Grazie poi a compressioni tettoniche, si è creata l‘attuale morfologia. Poche sono le grotte conosciute, tutte piccole o piccolissime, adatte alla frequentazione umana di ogni genere, da quella pastorale a quella brigantesca. La famosa Grotta dei Briganti qui ubicata è però ancora tutto un mistero, come le altre che si aprono nei suoi versanti meno accessibili. (31)

La Sallorenzo è grandiosa con dislivelli realmente notevoli. Nell’unica vetta presente vi convergono i tre versanti, uno dei quali, quello meridionale, mozzafiato nel vero senso della parola, si sviluppa interamente in maniera enorme e omogenea in quasi perfetta verticalità; dopo oltre 1000 m e una lunga serie d’impressionanti pareti, intervallate da micro e macro terrazzi in parte alberati, raggiunge l‘alveo del torrente (30). Si tratta davvero di un luogo inconsueto, forse l’unica area in Italia ancora inesplorata. Ma gli altri versanti non sono da meno, soprattutto quello di N-E: a forma di mezza luna, inclinato con una pendenza media del 45%, vastissimo e perfettamente omogeneo, tutto d’un colpo emerge dai sottostanti terreni agricoli; nella parte inferiore sono presenti bellissimi e intatti alberi di leccio e fillirea (31).



LE GOLE



Oltre quei 1000 m di verticale sottostante la vetta della Sallorenzo, si apre come una gigantesca bocca, un favoloso orrido, che a mo’ di un enorme serpente (32) s’insinua nel territorio per circa 10 km fino a raggiungere gli ultimi rilievi collinari che precedono la ridente Piana di Sibari (32a). Il torrente che vi scorre dentro, il Raganello (32), nasce alla Grande Porta del Pollino, a una quota di circa 1800 m e lungo il suo tragitto raccoglie le acque di vari affluenti fra i quali spiccano il Canale del Vascello e il Torrente Maddalena-Malamorta. Il primo prende forma dalle pendici di Serra Dolcedorme, il secondo da quelle del Monte Sparviere; insieme alle altre numerose immissioni, rendono il corso d’acqua discretamente copioso anche nei periodi di forte siccità.

Nella parte medio-alta, nei pressi dell’abitato di S. Lorenzo, la parete della sinistra idrografica delle gole scompare sotto i terreni argillosi e franosi dei pendii meridionali di Serra di Paola, interrompendo così le gole vere e proprie per ca. 2 km. Il canyon si trasforma prima in un classico torrente e poi in fiumara. Più giù però le pareti ridiventano gradualmente elevate fino a divenire nuovamente imponenti. Per questo motivo e per ragioni escursionistiche le gole sono suddivise in tre parti ben distinte.



Le Gole di Barile, lunghe ca 2,5 km e con un dislivello di circa 150 m, “nascono” dalla base sud-occidentale della Timpa di San Lorenzo e si formano in corrispondenza della Timpa di Porace-Cassano dove, a differenza della Sallorenzo, sono ubicate diverse grotte fra cui la Grotta di Palmanocera, di una certa lunghezza, e la mitica e prima menzionata Grotta di Marsilia, piccola, ma per me fondamentale (33). Sarebbe sbagliato dire che queste gole sono le più belle, ma hanno qualcosa di diverso rispetto alle altre: più selvagge e per niente antropizzate e poi l’acqua è particolarmente pulita (33). Il versante destro idrografico è attraversato per tutta la sua lunghezza da una caratteristica mulattiera che nella sua parte iniziale di valle presenta un accentuato restringimento a strapiombo sul torrente dove alle cavalcature e alle persone che soffrono di vertigini, per l’esiguità dello spazio e per il vuoto, è impossibile passare! Questo particolare passaggio forzato, chiamato da sempre Scala di Barile, era un tempo, se pur di difficile attraversamento, alquanto strategico e importante dato che era l’unico collegamento invernale diretto fra le ridenti contrade montane agro-pastorali di Bellizzia e il paese di San Lorenzo (34); ancora prima lo collegava con l’antico insediamento cenobita bizantino di Palmanocera, costruito intorno all’anno 1000 d. C. proprio al suo imbocco di valle, su una collina ben isolata e protetta, almeno dalle incursioni. Antecedentemente l’area era stata frequentata da una nutrita e forte comunità protostorica.

All’interno delle gole, quasi rasente l’alveo, sgorgano a pressione da stretti buchi nelle rocce diverse piccole sorgenti, qualcuna “a doccia” e che ha permesso di ricoprire con vaste incrostazioni calcitiche e una enormità di verdi piante di capelvenere l’area di deflusso. A questo si aggiunge, nella parte centrale e dalla destra idrografica, un affluente a forra e verticale, ma non perenne, detto Canale della Mancosa (34) che solo da qualche decennio è stato disceso ed esplorato integralmente. Più a monte, fuori gola ma in piena parete rocciosa della Sallorenzo ne discende un altro simile detto Marcantonio (35). Si tratta di particolari immissioni, se pure non perenni, che hanno fatto del Raganello un luogo molto ricercato dagli amanti del nuovo sport escursionistico detto “canyoning”. (36)

La cosa però che contraddistingue le Gole di Marsilia è la morfologia complessiva, che come su una sorta di tela pittorica potrà essere goduta in piena tranquillità e piacevolezza dal piccolo e accogliente paese di S. Lorenzo: a destra, enorme, a forma di mezzaluna addossata ai terreni, si distingue nettamente la Timpa di San Lorenzo, in parte spoglia; a sinistra s’innalza il tozzo e gros­so gruppo roccioso di Timpa Porace-Cas­sano con alle pendici la nuda e sassosa “Collina” di Palmanocera, avvolta e ben protetta a valle dall’alveo dal torrente. Fra il cielo e le rocce appare la verde Alta Valle del Raganello, dominata a sua volta dalla brulla ed elevata Serra Dolcedorme che con i suoi 2267 m domina tutto. A destra e a sinistra altri affascinanti luoghi, come la Timpa della Falconara, la Pietra Sant’Angelo e le Gole Basse, si aggiungono in maniera uniforme. Paesaggi di questo genere sono davvero difficili da trovare (35).



Le Gole centrali sono lunghe circa 2 km ed hanno un dislivello di circa 100 m. La loro caratteristica è di non avere pareti molto alte o particolarmente alte e verticali (36), infatti, il versante sinistro idrografico presenta delle pareti rocciose che superano di poco i 100 m. Nella loro parte iniziale vi è un breve tratto di qualche centinaio di metri, detto Pietraponte, dove, a volte, la stessa parete non è più alta di 10 m. Come si potrà capire dal nome, un enorme macigno incastrato in tempi passati in maniera naturale fra le due pareti, con semplici e funzionali adattamenti fatti dall’uomo, permette di passare in modo certamente originale e avventuroso da un versante all’altro (37), come da chissà quanti secoli hanno fatto i pastori di capre (37) del posto. Il versante opposto se pur non perfettamente verticale, è alquanto maestoso, continuazione naturale della citata Timpa di Porace-Cassano. E’ qui che ha sbocco un affluente del tutto particolare, il Grimavolo, un vero e proprio abisso al contrario, a cielo aperto, di difficilissima accessibilità. Non a caso da sempre i pastori e i contadini l’hanno considerato come il mas­simo limite. Il suo dislivello è di ben 460 m, proiettati su altrettanto sviluppo planimetrico. Insomma, la verticalità è molto accentuata. I salti, in prevalenza inclinati dell’80-90%, sono 27 e vanno da un’altezza di 2 a ben 100 m (38).

Al termine di questo tratto di canyon s’inarca un antico ponte in pietra (ora purtroppo quasi crollato) detto di Santa Venere o più comunemente Ponte D’Ilice (dei lecci) (38). Da tempo immemorabile è servito per collegare, tramite una mulattiera detta “di Cruecchie”, l’alta Valle del Frido e del Sarmento, in Basilicata, con la vasta area marina, fertilissima, di Cassano Ionio, in Calabria. E’ detta in questo modo per le sue caratteristiche fondamentali: accidentata, irta e pericolosa per il passaggio delle cavalcature, tant’è che più d’una ci ha rimesso la vita cadendo nella sottostante e profonda gola, quindi più adatta alle persone, o meglio ai gruppetti, “crocchi” appunto, in dialetto sallorenzano cruecchie.



Sono dette Gole basse quelle comprese nella parte di canyon che va dal Ponte d’llice al Ponte del Diavolo (39); sono lunghe poco più di 4 km e il loro disli­vello è di ca. 160 m. Anche queste, come le precedenti, hanno un andamento principalmente orizzontale, tranne alcuni piccoli tratti particolarmente inclina­ti. In esse ha sbocco l’altro affluente verticale, detto il Caccavo, che presenta un dislivello di 330 m su uno sviluppo planimetrico di poco meno di 250 m. Questi dati fanno intuire che si tratta anche in questo caso di una forra con andamento molto verticale, seconda solo al Grimavolo. Vi sono, infatti, ben 25 salti dai 3 ai 60 m, sette dei quali facilmente superabili senza l’ausilio di corde. Può essere suddiviso in tre parti ben distinte: la prima con i salti più alti; segue quella centrale e l’ultima parte invece ha salti abbastanza alti ma quasi in parete e poco inforrati. Nella parte compresa tra la centrale e la finale vi è un tratto molto incassato. (39)

Il versante meridionale delle Gole basse è attraversato da una miriade di sentieri che s’inerpicano e discendono una lunga serie di luoghi accidentati detti Timpe di Aria Massaro e Lamie, a tratti molto alberati, collegati ai Pianori di Sacchitiello. Questi ultimi, dominati da fianchi semi-inclinati e suddivisi da piccole e verticali pareti a “reggipoggio”, sono uno spettacolare e comodissimo balcone su tutto il canyon basso e sull’opposta e vasta parete (40). In seguito, man mano che le rocce riducono la loro superficie, i dirupi ridiventano nuovamente molto verticali e profondi, ma la loro corsa è breve dato che, poche centinaia di metri più a valle, il canyon ha termine ed è proprio qui che è posto, come un nido d’aquila, il paese di Civita. La vicinanza all’abitato, ai terreni agricoli e la sua, relativa, facile penetrabilità e l’accessibilità all’alveo, hanno reso questi luoghi, in particolar modo la zona di Sacchitiello, poco ricchi di piante, tranne che per l’euforbia cespugliosa che è alquanto presente e, nei periodi d’inverdimento, molto bella da vedere, se pure pericolosa per il suo “bruciante” lattice. Le poche grotte presenti sono tutte piccolissime ma affascinanti e piene di mistero (40).

Molto più spettacolare è il versante opposto, come già detto facilmente godibile da Sacchitìello, da dove, fra l’altro, se non fosse per il profondo canyon che li divide, si potrebbero quasi toccare con mano i numerosi terrazzi e le relative grotte in esso sviluppatesi (41). Esso si deve considerare un’unica enorme parete rocciosa, dalla gente locale è suddiviso “toponomasticamente” in tre parti. A monte la parete è chiamata Timpa i Ciende, forse dalla “storpiazione” della parola “recinti”; centralmente è detta Timpa i Sc-cosce, forse per la non omogeneità dei versanti; la parte finale è chiamata Timpa (o Pietra) del Demanio (42). L’intera lunghezza si aggira intorno a 5 km e il dislivello va dai 200 ai 600 m, con pareti a volte notevoli, intervallate da numerosi, vasti o piccolissimi terrazzi, molti dei quali alberati soprattutto con piante di fillirea, leccio, ginepro e pino d’Aleppo.

In corrispondenza del ciglio della Timpa i Ciende è presente l’intatto e meraviglioso Bosco di Santa Venere composto in prevalenza da specie quercine; qui classiche e semplici passeggiate si possono facilmente trasformare in meravigliosi “affacci da brivido” (43). Ma se si vogliono evitare i “brividi sottocutanei” basterà osservare le gole dalla Strada Statale n° 105 dove il paesaggio è dominato dalla massiccia Timpa del Demanio con i suoi 600 m di dislivello, quasi tutti a picco sul torrente, e dal paese di Civita, appollaiato sulla parete opposta (44).

Come nelle Gole Alte, anche qua la gola e attraversata da un’originalissima mulattiera, ma in questo caso il sentiero passa da un versante all’altro, tramite un ponte in pietra, il Ponte del Diavolo, ricostruito da poco su piloni molto antichi, ricco di aneddoti leggendari (41). Quest’antica strada mulattiera fino a pochi decenni orsono era importantissima, poiché collegava, con più sicurezza rispetto al precedente citato Ponte d’Ilice e da epoche remotissime, la Valle dell’Eiano e quella del Coscile con l’Alto Ionio Cosentino e la Basilicata centro orientale. Non è un caso, infatti, che nell’area dello sbocco di valle delle gole, numerosi sono gli insediamenti protostorici e di epoche successive, trasformati infine nell’attuale e bellissima Civita, abitata negli ultimi 500 anni ca. da popolazioni arbëreschë provenienti dalla terra balcanica d’Albania (42).

Altre accomunanze con le gole alte sono i numerosi racconti storici-leggendari. In uno di essi, arrivatoci di nuovo dalla tradizione orale femminile, il personaggio chiave è nuovamente una donna … perfida, un’altra “malafemmina”, ma anche in questo caso solo per il gentil sesso! Non si conosce il suo nome, ma semplicemente è genericamente detta “megàre” o, come nella lingua arbëreschë, “magaris”, ovvero “megera”.  La sua dimora anche in questo caso ricade in una grotta, posta in piena parete verticale per oltre 300 m, quindi in un luogo, almeno per i tempi passati inaccessibile (45). A causa della solita gelosia delle donne sposate, Megaira fu costretta ad allontanarsi dall’abitato e vivere isolata in quell’anfratto. Da allora però una maledizione costringe le donne nubili a non poter guardare verso quella sua grotta-dimora inaccessibile, pena il non sposarsi mai più! (43)



Per tale credenza, e per un filone comune a quello di Marsilia e a tante altre di ogni parte d’Europa che legano l’aspetto inquietante delle gole in genere a cose sovrannaturali e pericolose, molto si è detto e scritto sullo spettacolare Canyon del Raganello, in alcuni casi però in maniera sbagliata o poco precisa. Una delle maggiori inesattezze è legata alla sua accessibilità, definita da molti “impossibile e pericolosa”; ma questo vale in parte, soprattutto per gli affluenti a forra e una buona fetta delle pareti e delle sue grotte. L’alveo e i bordi delle pareti, sono certamente poco comodi e irti di pericoli, ma se si affrontano con umiltà e saggezza, chiunque potrà approfittare della loro bellezza. Il tutto però non va assolutamente sottovalutato giacché il rischio di farsi male è alto e questo è dimostrato dai molteplici incidenti, anche gravi, accaduti agli escursionisti che da qualche decennio la scelgono come loro meta. In ogni caso il canyon è davvero bello e affascinante, descrivere però con poche righe quello che un potenziale visitatore potrebbe provare, nel percorrere il suo alveo, i suoi affluenti, le pareti o le sue grotte è alquanto difficile e in ogni caso sarebbe sempre riduttivo poiché il paesaggio, o meglio l’ambiente naturale in genere (strettamente collegato alla storia dell’uomo), è stupefacente tanto da lasciare a bocca aperta e senza parole. Vediamo però di provarci.

Nell’arco dei millenni le acque del Raganello hanno creato uno dei più bei e maestosi canyon d’Italia, dove paesaggi mozzafiato, forti emozioni, brividi e tanto altro sono alla portata di mano. A questo si unisce una moltitudine di sensazioni tipiche, diverse in ognuno di noi; a volte tutte mescolate insieme, come l’ebbrezza, la pelle d’oca, la soddisfazione, il credo, l’apprezzamento, la voglia di vivere e di apprendere e vedere ancora. L’essere insomma contentissimo di aver conosciuto e apprezzato un mondo insolito, che da sempre ha messo, paradossalmente, soggezione alla maggior parte degli uomini. Una gran voglia addosso di ritornarci quanto prima e di raccontare ad amici e parenti la propria positiva esperienza (almeno per una buona parte dei visitatori) è la prova lampante.

Certamente il rispetto e il timore nei confronti del Raganello (delle credenze e legate a esso) e cosa esso è stato capace di produrre devono essere una costante. Qualcuno potrebbe essere dell’idea che le gole si possono meglio apprezzare dai numerosi belvedere presenti lungo i suoi versanti e nei più prossimi pressi (46). Ha ragione, ma soltanto in parte. Goderle prima da quei comodi “balconi” e poi dal di dentro (47) o anche dai numerosi banchi delle pareti (48), che le hanno formate, o lungo i suoi affluenti verticali (49) è qualcosa in più.

Le Gole del Raganello si possono affrontare in diversi modi. L’importante, fondamentale e vitale, lo ridico, è essere consci delle proprie forze, del proprio livello tecnico e delle difficoltà e pericolosità dei percorsi. Come prima cosa bisogna conoscere l’itinerario che si è deciso di affrontare; poi percorrerlo nel massimo della sicurezza, quindi equipaggiati adeguatamente (50), e per motivi legati alla propria sicurezza, informare preventivamente gli organi di soccorso (44). Si dovrà essere assolutamente umili come del resto lo sono e lo sono stati sin dalla più remota antichità i suoi più classici frequentatori, perfettamente amalgamati con quelle difficili morfologie, costretti a conviverci e instaurando una particolare “simbiosi”. Mi riferisco ai pastori che nell’arco dei secoli hanno, ovviamente, modificato il loro modo di vivere. Del resto i proprietari più ricchi e potenti si tenevano le terre più fertili e comode!

Vidi per la prima volta i “pastori delle rocce” (51) da ragazzo, durante i miei viaggi a San Lorenzo. Rimasi subito affascinato dall’arte che avevano nel “camminare” sulle rocce della Gola di Barile. Bisogna dire fra l‘altro che quei pastori erano mal calzati e mal vestiti, soprattutto se vengono paragonati con chi oggi affronta una parete rocciosa. Questo mi rendeva ancora più perplesso nel vederli saltare o arrampicarsi da una roccia all’altra con una totale disinvoltura e una domanda mi veniva spontanea: <<ma come fanno?>>. La risposta va senz’altro ricercata nel loro DNA. Questi mingherlini ma resistentissimi signori per esigenze pratiche hanno colonizzato i numerosi strapiombanti terrazzi, attribuendo loro i nomi e utilizzandoli per vari fini; stessa cosa è avvenuta con le numerose grotte lì ubicate. Il rischio giornaliero era molto elevato. Numerosi erano i pericoli, primo fra tutti le cadute da piccole o impressionanti altezze. Dove però non era possibile andare “in libera” si utilizzavano metodi originalissimi come farsi calare con la corda o qualcosa di simile, o costruire delle passerelle con rami d’albero mantenuti fra loro con semplici cordicelle o filo di ferro (52); a volte erano conficcati nelle fessure della roccia rudimentali punteruoli metallici o di legno. Durante un’escursione ho visto persino un pezzo di vecchio ferro d’asino incastrato in una fessura e usato come supporto per le passerelle (53)! Questi segni sono purtroppo ormai rari, ma a vederli si rimane davvero colpiti. Persino i toponimi di alcuni vecchi percorsi mantengono ancora il nome originale.

A tutto ciò si deve obbligatoriamente credere perché una prova inequivocabile ci viene proprio dalla toponomastica. Ogni pezzettino di parete rocciosa, sia essa verticale o terrazzata, a portata di mano o inaccessibile, ha un nome e inoltre in essi vi sono chiari segni di frequentazione. A vederli da lontano viene molto difficile pensare che in quei minuscoli terrazzi ci sia stato l’uomo, eppure qualcuno ci ha vissuto. A testimonianza di questo vi sono le numerose grotte con chiari segni di frequentazione di ogni epoca e lungo i terrazzi, oltre alle già citate opere di miglioria, vi sono anche terrapieni, muri, ecc. (54)

Ora di questi pastori ve ne sono pochissimi, ma se si ha fortuna, in zone adatte si può ancora osservare qualcuno arrampicarsi tenendo in mano o fra i denti un sacco contenente dei giovani capretti e ai piedi delle rustiche scarpe! Il tutto mentre supera uno strapiombante e stretto passaggio per andare a liberare quegli animali nel vicino terrazzo (55) ! Al ritorno il pastore blocca quell’unico passaggio con un piccolo cespuglio; così i capretti sono costretti a rimanere in quei limitati pascoli fino a che non arriva la brutta stagione, che a seconda della zona può coincidere paradossalmente anche con  l’estate. In quei pascoli i capretti sono al sicuro sia dai ladri sia dai lupi e al pastore non resta altro che andarli a controllare ogni tanto.

Sempre i soliti pastori hanno un loro singolare modo di chiamare i passi d’accesso ai terrazzi. Quando incominciai a frequentarli e domandargli se conoscevano qualche grotta in quel determinato banco, la risposta oltre ad essere affermativa era anche molto originale: <<Stai attento ad andare lassù, perché potresti vedere il Paradiso!>>. Raggiunta la prima volta la Grotta Lubbertit (45), solo per fare un esempio, mi resi subito conto di cosa voleva dire quel pastore: poco prima di imboccare il piccolo terrazzo d’accesso bisognava scendere un ripido canalone con pietraia che tutto d’un colpo sbucava in piena parete strapiombante per oltre 300 m! Dal lato paesaggistico si vedeva davvero il paradiso e l’avrei visto, forse, anche in caso di mia caduta verso il basso, poiché le possibilità di scivolare erano elevate!

Come ho già detto, gli “uomini delle rocce” ormai sono pochissimi ma, per fortuna, la loro eredità culturale è giunta fino a noi e, se pur trasformata in attività ricreativa, rimane. Da qualche anno infatti, seguendo i loro percorsi e imitando le loro tecniche (con l’aggiunta di conoscenze moderne) abbiamo “inventato” una particolare attività escursionistica a cui abbiamo dato il nome di “banchismo”, una via di mezzo fra l’alpinismo, la speleologia e l’escursionismo in zone rocciose. (46)



OLTRE LE GOLE



Non limitiamoci però a descrivere le sole pareti adiacenti all’alveo. I territori più prossimi e poco più lontani (al massimo al di là del vicino spartiacque di delimitazione del bacino) sono ugualmente affascinanti, incantevoli e ricchi di peculiarità, oltre che arricchiti, come uno sfondo, dalle bellissime visioni delle gole stesse.




Fra i luoghi più vicini al torrente che meritano una più approfondita descrizione, va certamente inserita la Serra di Paola e la sottostante Pietra Sant’Angelo (56). Quest’ultima è lì, lungo la strada di collegamento fra Cerchiara e San Lorenzo, pericolosissima per l’incolumità dei passanti, poiché è proprio attaccata alla strada, perfettamente verticale da quel lato per oltre 200 m (57). La roccia è calcarea con pareti molto stratificate grosso modo in maniera orizzontale, quindi a reggi poggio che hanno permesso il crearsi di tanti grandi e piccoli terrazzi, intersecati ogni tanto da fratture verticali. Complessivamente si presenta a forma di un enorme cuneo che fuoriesce dai sottostanti e soprastanti terreni miocenici. Grazie a tutto questo sono presenti una miriade di cavità carsiche, alcune delle quali, come la Grotta del Banco di ferro e la Grotta delle volpi, di discreto sviluppo (47). Avendo una perfetta esposizione verso sud, l’intera parete, dai tempi più antichi sino ad arrivare a oggi, è stata scelta dall’uomo come luogo sacro, abitativo-difensivo e lavorativo. In quasi tutti i suoi angoli, anche quelli più accidentati, sotterranei o superficiali, vi sono antichissime e recenti tracce di frequentazione umana, le ultime quelle dei pastori e poco prima quella dei monaci eremiti che hanno lasciato il nome alla contrada.

Se si vuole però rimanere colpiti indelebilmente da visioni di meravigliosa bellezza, si dovranno guadagnare le sue due piccole vette (che raggiungono una quota massima di 1125 m) oppure i suoi più comodi pressi. Credetemi, nel momento in cui guarderete il paesaggio circostante da lassù la gioia, prevarrà su ogni cosa (58). Se poi raggiungerete, sempre con molta comodità e pochi rischi (vista la natura terrosa e boscosa) la soprastante e acuta vetta di Serra di Paola, la gioia ve la porterete per un bel po’ nell’animo. Dai 1386 m di quota, proprio dal posto regionale d’avvistamento incendi, che è un vero balcone, avrete sotto gli occhi tutta la bellezza e la straordinarietà della Terra di Marsilia (59).



Altra località rocciosa, in parte vastamente terrazzata e molto prossima alle gole (in realtà le forma) è la Contrada San Martino che si è creata grazie all’erosione e ai movimenti vari della base rocciosa. Si trova a contatto fra la Timpa Cassano-Porace e la Timpa delle Lamie-Sacchitiello, quindi sempre nella destra idrografica, ma in posizione più elevata rispetto ad esse. Un ridente pianoro detto “di San Martino”, da chissà quanto tempo colonizzato in maniera perfettamente ecocompatibile da pastori e agricoltori è quasi interamente circondato da dirupi rocciosi. A valle sprofondano alte e verticali pareti; superiormente, in maniera certamente dominante, s’innalza una gigantesca muraglia, verticale, fatta da strati rocciosi orizzontali e compatti, alti come una barriera più di 100 m: la Timpa di San Martino, appunto (60). Qui si aprono diverse piccole grotte impostate su interstrato o su frattura (48). Nella sua parte più occidentale s’inerpica, attraversandola con un originale passo, una bellissima mulattiera, che era utilizzata per raggiungere le aree agricole del Grimavolo e Porace (61). La posizione strategica della contrata si può capire anche da un’altra mulattiera che passava da qui. Mi riferisco alla già citata Via dei Cruecchie (dei Crocchi) che da San Lorenzo, passando per il Ponte d’Ilice, quindi dall’alveo del Raganello, saliva fin quassù e poi scendeva verso la marina. Varrà la pena percorrerla, anche se i ripidi dislivelli ci toglieranno un po’ di fiato.



MEDIO E ALTO EIANO



Un’area molto vicina al Raganello, in modo particolare alla prima citata località di San Martino, è la media e alta Valle dell’Eiano, che prende il nome dal torrente che qui nasce da copiose sorgenti (62). Per la presenza di uno svincolo autostradale e relative aree urbane, l’Alto Eiano è il territorio da me descritto con il più facile accesso stradale. Non per questo però il luogo, dal punto di vista naturalistico è poco interessante. Escluse, infatti, queste arterie stradali e quelle poco sviluppate antropizzazioni moderne (tutte circoscritte nelle aree viarie), l’area è particolarmente intatta. Nelle aree pianeggianti (fertili, dolci e utilizzate soprattutto per la viticoltura) si accedere in piena armonia (63), mentre in quelle montane, opposte, lo si può fare solo a piedi. Questo è dovuto al fatto che verso settentrione, proprio alle spalle del paese di Frascineto-Eiannina, un’enorme ”scarpata”, alquanto irta e rocciosa, tutto d’un colpo si proietta dai ca. 450 m s.l.m. fin oltre i 2000 m (64). Alla sommità del primo muro roccioso, detto Timpa del Corvo e Timpa Crivo (65), la verticalità cede momentaneamente il passo ad alcuni pseudo-altopiani ricchi di molte doline carsiche (49), che ci accompagnano all’altrettanto roccioso e pianeggiante Monte Moschereto (1318 m s.l.m.), che dal lato del Raganello presenta un versante quasi in perfetta verticalità (66). Da qui un lungo e solitario crinale a forma di un’enorme lama dentata, conduce fin sulla vetta di Serra Dolcedorme (2267 m). Si tratta di un netto spartiacque fra il bacino dell’Eiano e quello del Raganello, molto particolare dal lato morfologico: roccioso, spoglio e particolarmente acuto.  Lungo i suoi 3 km presenta varie vette, la più importante e anche la più interessante delle quali è certamente il Monte Manfriana (1981 m s.l.m.), bello, misterioso e seducente nello stesso momento. Posto all’incirca nella parte media del lungo crinale, si presenta con due grandi piramidi (67) al centro delle quali si trova una vera e propria oasi. Infatti, a cavallo delle sue due vette, separate da una profonda e vasta spaccatura, che la gente locale chiama “Afforcata”, si sviluppano dolci e lineari pianori contornati da ripidi versanti e alberi di faggio. Un vero refrigerio di piacere: da particolarmente aspro, il posto si trasforma in un luogo alquanto piacevole. Secondo la tradizione qui si apre una mitica profondissima grotta ma tutte le ricerche da noi effettuate hanno solo potuto individuare piccole caverne, ubicate nella parte meridionale della vetta occidentale (50).

Da entrambe le vette vi sono visioni paesaggistiche a perdita d’occhio. Per questo, su quella orientale, arsa dal sole in estate e battuta da tutti i venti in inverno, nel periodo ellenistico, vi fu costruito un frurion o forse un tempio, ora purtroppo del tutto scomparso, ad eccezione di alcuni blocchi squadrati rotolati nei più prossimi versanti (51).

Quasi in maniera omogenea, fra le varie vette della lunga serra, nel corso dei secoli l’uomo, per motivi di commercio e soprattutto di pastorizia, ha creato diversi valichi. C’è ne sono per tutti i gusti. Chi ama le quote più elevate, può utilizzare il valico del Vascello (1961 m s.l.m.); chi ama le quote medie, può utilizzare quello detto Marcellino Serra o Sparviero (1787 m s.l.m.) e del Principe (1702 m s.l.m.), e chi invece si vuole mantenere a quote più basse per entrare (o uscire) nella (o dalla) vasta e lussureggiante faggeta di Bosco Fagosa, può utilizzare il Colle della Scala (1286 m s.l.m.), che, tramite storiche mulattiere è collegato direttamente con il paese di Frascineto-Eiannina. Si tratta certamente del valico per eccellenza che mette in comunicazione l’Alto Eiano con la media e alta valle del Raganello, in modo particolare con l’area cosiddetta di Colle Marcione (1230 m s.l.m. ca.), luogo alquanto strategico, ottimo punto di partenza e di arrivo per le più belle escursioni nel cuore della Terra di Marsilia, e in modo particolare verso la parte più elevata della Timpa di Porace (68) e il cuore del Pollino.

La parte media dell’Eiano è per la maggior parte occupata dall’abitato di Cassano allo Jonio e di Lauopoli. Dagli studi archeologici risulta che l’intera area è da tempo immemorabile frequentata dall’uomo, in modo particolare le rocce che li si innalzano e che oggi vengono chiamate Muraglione, Pietra San Marco e Castello. In modo particolare l’uomo da sempre è stato attratto dalle numerose e lunghe grotte li ubicate. Complessivamente le grotte conosciute ed esplorate da noi speleologi sono diciannove, le prime delle quali, il Sistema di Sant’Angelo e la Grotta dello scoglio,  risultano essere le più estese della Calabria (52).

Se pur notevolmente antropizzata, l’area di Casano-Lauropoli è alquanto bella. Nudi picchi rocciosi, sulla cui sommità sono presenti antiche vestigia, si alternano a dolci colline, separate a volte da alti calanchi. Il fondovalle è attraversato dal Torrente Eiano e lo sfondo, da un lato, è dominato dagli alti monti del Pollino (69) e dall’altro dalle Gole del Raganello e Monte Sellaro (70). A valle il territorio, ingombro di secolari uliveti, degrada dolcemente verso la ricca e fertile Piana di Sibari.



MONTE SELLARO



Altra area di facile accesso dal punto di vista stradale, e di notevole importanza archeologica, direttamente in contatto con la parte bassa del Canyon del Raganello, è il Monte Sellaro (1439 m s.l.m.) (71). La strada statale che attraversa la Valle dell’Eiano è la stessa che porta prima all’alveo del Raganello nei pressi di Civita e poi a Francavilla che, insieme alla vicina Cerchiara, sono le porte d’accesso al gruppo montuoso del Sellaro.

Proprio per la vicinanza alla Piana di Sibari tutte le contrade del Monte Sellaro sono da tempo immemorabile abitate dall’uomo, siano esse di facile accesso o irraggiungibili, come lo era un tempo il luogo sacro per eccellenza di tutta l’area, quello che oggi conosciamo con il nome di Santuario della Madonna delle Armi (53).

In ogni angolo del Monte Sellaro si può assistere a una miscelazione di paesaggi naturali molto belli con testimonianze di ogni epoca. Grotte stupende (72), alte pareti rocciose, terrazzi strapiombanti incontaminati, stretti canyon (73), ricche sorgenti di acqua normale e calda-solforosa (74) e visioni paesaggistiche vastissime, coesistono con l’originale santuario (75), con i numerosi siti archeologici come quello enotrio e magnogreco di Timpone della Motta-Macchiabate (76), con gli altri numerosi insediamenti protostorici, con i resti del castello normanno di Cerchiara.

Il Monte Sellaro per la sua difficile accessibilità, dovuta alla notevole e aspra componente rocciosa, possiede ancora moltissime contrade particolarmente integre. Nel percorrere, rigorosamente a piedi, le varie mulattiere, sentieri o tracce che si diramano in ogni direzione, le emozioni saranno certamente tantissime. Vasti pianori strapiombanti come quello di Sant’Andrea (77), Lupparello-Santa Rosalia, Pedarreto e Terra Masseta (78), circondati da notevoli picchi, profondi burroni e scarpate molto alberate a macchia mediterranea, ci permetteranno di immergerci in un mondo fiabesco; le due cime di vetta (79) ci faranno provare sensazioni di vera montagna e scoprire vedute sorprendenti; il profondo Canyon del Caldanello ci regalerà emozionanti brividi; le strane sensazioni dei luoghi inesplorati ce li offriranno le numerose grotte.



Il Torrente Caldanello è certamente il corso d’acqua più simbolico del Sellaro. Nasce alle pendici orientali della piccola montagna detta Serra di Paola (1366 m s.l.m.) e dopo circa 15 km, la sua corsa ha termine in piena pianura miscelandosi con la vicina Fiumara Satanasso. Comincia a diventare molto interessante dal lato morfologico nel momento in cui lambisce per quasi 3 km le rocce calcaree orientali del Sellaro, che qui si presenta in maniera verticale, trasformandosi in un favoloso canyon o meglio, com’è chiamato localmente, in Gravìna. Il tutto è arricchito dal bel paese di Cerchiara che fu costruito, molti secoli addietro, sull’imbocco di monte, su un alto sperone roccioso.

La Gravìna è davvero molto bella. Anche se le pareti che la formano non sono molto alte, hanno la caratteristica di essere molto vicine fra loro, soprattutto nella parte più prossima all’alveo (80).

Il versante sinistro idrografico è il meno elevato dal punto di vista della verticalità (mediamente 100 m) ed è geologicamente misto. L’abitato di Cerchiara è posto qui e, per questo, è molto antropizzato.

Al contrario, se pur molto vicino, il versante opposto, grazie al canyon che ha fatto da vero e proprio profondo fosso protettivo, l’uomo, scoraggiato dalle altissime pareti, è quasi del tutto assente.

La Gravìna è un vero e classico orrido, con caratteristiche tipiche di questi luoghi, ma in un certo senso del tutto particolari, soprattutto per l’esigua limitatezza volumetrica del suo fondo, decisamente stretto e profondo e poco percorribile.

A una quota di ca. 600 m, tutto d’un colpo e quasi a mo’ d’inghiottitoio il torrente penetra nelle dure rocce calcaree. Stranamente il canyon non si è formato per differente composizione geologica ma per una sorta di grande strana erosione avvenuta non nei terreni ma nei duri calcari. Per questo motivo il versante sinistro idrografico, rispetto a quello opposto, presenta piccole pareti rocciose sormontate dai terreni. Il versante destro è più maestoso. Dalla sommità del Monte Panno bianco (1330 m s.l.m.), una ripidissima scarpata denominata Cessuta, a monte e Costa del ponte, a valle, prima pian pianino, poi tutto d’un colpo, si trasforma in un impressionante baratro, se pur terrazzato, particolarmente verticale. E’ senz’altro il “lato migliore” della Gravìna che con andamento molto tortuoso ha termine dopo 4 km, a una quota di circa 170 m e col notevole dislivello di 400 m, quasi in piena pianura.

Nel percorrere il fondo, ora purtroppo con molta attenzione poiché lo stesso è interessato da scarichi fognari (sic!), si devono superare una serie di tratti pianeggianti intervallati da piccoli salti in verticale e budelli semi inclinati erosi dall’acqua la quale nell’arco dei secoli ha creato eleganti morfologie (81).

Per attraversare più comodamente la Gravìna, l’uomo qualche secolo addietro nella parte inferiore vi ha costruito un bellissimo ponte in pietra e calce (82) che permetteva anche il collegamento con l’impianto termale che oggi conosciamo con il nome di Grotta delle ninfe Lusiadi ma che fino a pochi decenni orsono era semplicemente detta Caldana (83) e che senz’altro ha imposto al nome al Torrente Caldanello.

Ho cominciato a conoscere la Caldana da ragazzino, quando mio nonno Nicola mi raccontava dei suoi viaggi come mulattiere per accompagnare negli anni 50-60 mia nonna e altre compaesane a queste antichissime “acque calde” curative. In seguito anch’io ho avuto più volte modo di visitarle e utilizzarle, piacevolmente; da allora sono una mia meta fissa. Oltre la grande ospitalità dei gestori, a me piace molto la semplicità di queste strutture termali.

I 150 m³ circa d’acqua, ricchissima di sali solforosi e con una temperatura che raggiunge anche i 30° C, scaturiscono a ebollizione da strette fessure rocciose poste all’interno di una grotta lunga all’incirca 30 m ma che è collegata per via idrica, tramite microfratture, a un vasto sistema carsico, un vero gioiello, come tutte le altre grotte presenti nel territori.

Ogni luogo ha una sua caratteristica particolare; il Monte Sellaro è nell’ambito calabro-lucano la montagna per eccellenza dal punto di vista speleologico. Nel suo sottosuolo si sviluppano le maggiori e più importanti grotte di queste regioni, che sono anche fra le più importanti del meridione d’Italia. Oltre le grotte presenti, sono particolarmente importanti anche tutti gli altri aspetti tipici del carsismo, come quello superficiale o legato a fattori storico-culturali. (54)

Meritano un primo posto tutte le grotte presenti sul Sellaro e in particolar modo l’Abisso di Bifurto, con quasi 700 m di profondità (55) e la bella e grande Grotta di Serra del gufo (56). Un posto però in prima fila va anche dato al Sistema carsico della Caldana (57), prima accennato, dove speleologia, idrologia e geologia s’incontrano in maniera davvero originale.

Essendo il calcare del Sellaro particolarmente solubile all’acqua e nello stesso tempo compatto, le morfologie interne delle grotte sono particolarmente affascinanti. Nell’accedere sottoterra, con molto piacere si avrà modo di assistere a forme di concrezionamento singolare come ad esempio quello coralliforme (84) o a “occhio di bue” (85); ma anche in assenza di formazioni calcitiche, gli ambienti ipogei, come nel caso dell’Abisso di Bifurto, per la loro imponenza, sono da considerarsi ugualmente straordinari (86).

Particolari in quest’area sono anche il tipo di fauna e flora presente in grotta. Numerose sono, per fortuna, le colonie di varie specie di pipistrello (87) e quasi tutta la micro-fauna cavernicola è notevole e poco conosciuta dal lato scientifico. Nella Voragine delle Balze di Cristo oltre alla presenza di caldissime acque solforose, direttamente collegate con la Caldana, è presente una sorta di “vegetale” ancora tutto da studiare e, insieme con quello presente nelle vicine grotte di Cassano all’Ionio, una vera rarità. (58)

A tutto questo va aggiunto il fattore umano, il quale, nell’arco dei millenni, ha operato in maniera certamente molto originale, legando alle grotte una lunga serie di episodi, primi fra tutti quelli della propria sopravvivenza, quelli religiosi e anche quelli leggendari-mitologici. Tutte le grotte, oltre ad avere una storia speleologica, certamente recentissima, possono raccontarci una trama lunga alcuni millenni. (59)



MONTE SPARVIERE



Verso settentrione, dopo l’importante Valico di Bifurto (60), ma già dall’abitato di Cerchiara di Calabria, il gruppo del Monte Sellaro, cede nettamente il posto al gruppo del Monte Sparviere (88), mia zona d’origine, mio luogo di residenza e per questo a me legato in maniera particolare (61).

Nettamente distinto dal gruppo centrale del Massiccio del Pollino e dal vicino Monte Sellaro, la sua origine è fliscioide, quindi vi sono zone argillose, marnose e d’arenaria. Nonostante tutto, spesso s’innalzano notevoli pareti e scarpate rocciose.

La vetta più alta, appunto il M. Sparviere, detto localmente anche Timpone della Previtera, dall’antico nome di tutta l’area (62), raggiunge un’altezza di 1714 m, dominando, se pur di poco e in maniera non centrale gli altri rilievi del gruppo (89).

Le principali vette sono intervallate da lussureggianti e bellissimi altopiani erbosi sviluppatisi linearmente su una quota media di circa 1550 m. Questi pianori, sono detti Lagoforano (90), Tacca Peppino-Rotondella e Cistone; sono davvero particolari sia dal punto di vista ambientale che da quello paesaggistico per le bellissime vedute sul circostante territorio e in modo particolare sulla Terra di Marsilia. Tramite questi altopiani-valichi ci si può affacciare in uno dei numerosi belvedere sulla Valle del Raganello. Di colpo ci si troverà avvolti in uno straordinario scenario. Altissime e vertiginose pareti e picchi rocciosi, alte montagne, verdi vallate, dolci e piacevoli antropizzazioni, luminosissimo cielo, radiosi colori, profondi canyon si apriranno davanti ai nostri occhi. Il tutto, vedrete, sarà arricchito dal “profumo“ di una storia millenaria e dalla presenza di gente fiera e ospitale, possessori di tradizioni molto particolari. Nonostante tutto, i vostri occhi non hanno ancora visto niente! Quegli aspri territori visibili da quassù celano e proteggono con tanta imponenza altri luoghi fantastici e solo “immergendosi” si potranno scoprire. 

Il Lagoforano, direttamente collegato con quello di Tacca Peppino, è quello più famoso e bello, sia per la sua vastità che per la posizione da cui, fra l’altro, è derivato il suo nome, “foràno”, cioè posto in alto, in cima, “fuori mano” rispetto agli abitati più prossimi, Alessandria, verso oriente, e San Lorenzo, verso mezzogiorno. Il luogo è caratterizzato dalla cosiddetta Conca, un vasto avvallamento erboso, grande quanto uno stadio di calcio, nel quale -durante il corso dei millenni- per motivi tettonici è venuto a crearsi il bacino lacustre, che purtroppo oggi è in secca, se non nei periodi invernali (91). Questo ha fatto sì che Lagoforano non sia importante solo dal lato naturalistico ma anche da quello storico, poiché negli ultimissimi anni ha suscitato l’interesse di alcuni particolari ricercatori. Infatti, l’attuale livello di base della Conca è stato carotato per diversi metri di profondità e analizzati i suoi sedimenti, sono stati individuati e analizzati vari livelli con tracce della flora selvatica autoctona o coltivata nelle sottostanti valli a partire da 10.000 anni addietro. Non a caso il Valico di Tacca Peppino, posto poco più in alto, ha da sempre rappresentato un luogo simbolico e strategico per l’uomo, da cui passava l’antica Via Regia di commercio e transumanza (e anche militare) che collegava la Piana di Sibari e la Piana di Policoro con il Pollino Orientale. Non è un caso, infatti, che nel periodo di forte brigantaggio questo luogo fungeva da vero magnete per latitanti e affini. (63)

Tutti i versanti del gruppo, sia quelli esposti a S sia quelli a N, anche se notevolmente inclinati, sono ricchi di una variegata vegetazione che ha permesso la formazione di vasti e particolari boschi.

Nel versante N-O del gruppo, nella così detta Fossa Lupara, meta di numerosi e insigni studiosi botanici provenienti da ogni parte del mondo, sono presenti diversi paleo-boschi (92). A cominciare dalle quote più basse, con esposizione a settentrione, è presente il Bosco Francomano, composto dalle sole specie quercine; collegato ad esso, ma in posizione più elevata e con esposizione prevalente verso N-E, si sviluppa l’altro bosco detto di Bruscate-Difisa. La prima parte è caratterizzata dalla presenza di specie miste tipo l’acero, il cerro e l’ontano napoletano; nella così detta “Difisa(93), protetta (o meglio “difesa”, da cui il nome) con atti ufficiali sin dal 1700 dall’allora decurionato di Alessandria (64), sono presenti ben sei specie di acero (di monte, lobelius, napoletano, d’Ungheria, campestre e minore), per la maggior parte centenari, con un diametro medio del tronco di 43 cm. Spostandosi poi ancora di lato e verso N, ma con esposizione E, su una ripidissima ed elevata valle detta Canale i verne (Canale degli ontani), è presente, in maniera certamente strana, una ridente comunità di piante di ontano napoletano. Sparsi poi fra i vari boschi, crescono imponenti esemplari di tiglio, sorbo degli uccellatori, frassino, olmo, pioppo tremolo, pruno selvatico e abete bianco (94). Per quest’ultima specie è giusto dilungarci un po’. Nella Previtera del Monte Sparviere l’abete bianco, per l’eccessivo taglio perpetrato abusivamente nel periodo successivo all’ultima guerra, è ormai diventato rarissimo. Se però ci si sposta nella parte settentrionale del gruppo, cioè nel versante N del Timpone della Neviera, si può ancora facilmente capire com’erano ricoperte le quote più alte di questa montagna. Qui è, infatti, presente l’ultimo residuo, esteso per qualche centinaia di ettari, di quell’antica foresta che ricopriva tutto il Monte Sparviere, vista e descritta nell’ottobre del 1861 dallo spagnolo Josè Borjès (65). Sembra davvero di immergersi nel passato e non è un caso che la festa più simbolica del paese simbolo dello Sparviere, Alessandria, è da tanti secoli dedicata interamente all’abete. Si chiama festa della pita, in altre parole “dell’abete”, e si celebra, accompagnata con canti, suoni, balli e cibo tradizionale e in maniera molto sentita e collettiva, l’ultima domenica di aprile e il 3 maggio successivo. (66)

Gli altri boschi di una certa importanza sono quelli della Bruscata di Terranova-Valle Nera (specie dominanti querce e ontano napoletano), quello di Lagoforano (specie dominanti querce e aceri) e quello della Cannariata (specie dominanti querce).

L’importanza però dei monti della Previtera non è soltanto legata agli aspetti morfologici, botanici e paesaggistici, ma anche a quelli faunistici. Durante una qualsiasi escursione, se si ha tempo a disposizione, costanza, pazienza, tanta fortuna e soprattutto tatto, ci si potrà imbattere in numerose specie tipiche dell’area, sia di una certa, per così dire, visibilità, che meno appariscenti, alcune delle quali, come il lupo (95) e l’aquila reale, rarissime altrove. Avere la fortuna di incontrare da vicino o da lontano un branco di lupi di passaggio o davanti la loro tana non è cosa da poco; non tanto per la rarità dell’evento, che già di per sé sarebbe qualcosa di favoloso, ma soprattutto per il fatto che tale fortuna ci permetterebbe di fare un salto indietro nel tempo, in un mondo difficile e selvaggio, almeno per quegli attimi d’avvistamento. Questo per fortuna qui sullo Sparviere e nel Pollino orientale in genere, grazie alle adatte condizioni ambientali, non è soltanto un sogno e può avvenire. E’ più facile invece di incontrare, anche di giorno e in luoghi antropizzati come le strade e le periferie dei paesi (soprattutto in inverno), singoli esemplari, solitamente scacciati dal branco, andati via o inviati in avanscoperta.

La presenza di lupi in quest’area, che è un luogo di particolare importanza per la conservazione di questi straordinari carnivori, oltre che dimostrata, purtroppo, da innumerevoli stragi (67), è avvalorata anche da seri e recenti studi portati avanti dai ricercatori dell’Università “La Sapienza” di Roma e coadiuvati da studiosi locali. Tali studi, fatti con tecniche avanzate e innovative, hanno dimostrato che negli ultimi anni il lupo ha avuto un considerevole incremento numerico, ma questo non significa che la specie sia al sicuro dall’estinzione. Questo perché, a mio parere, non si fa nulla di concreto per risolvere lo storico conflitto fra uomo e lupo.

Diversi sono i corsi d’acqua che dallo Sparviere hanno inizio che nascono da numerose piccole sorgenti, omogeneamente sparse per il territorio. Alcuni, come il Canale Maddalena-Malamorte e il Vitria risultano affluenti di altri torrenti o fiumare (in questo caso del Raganello e del Sarmento), altri, come il Satanasso (68) e il Saraceno (69), sono indipendenti e dopo qualche chilometro dalle sorgenti si trasformano in vaste, lunghe e ghiaiose fiumare che sfociano in maniera molto più maestosa nel vicino Mare Ionio (96).



L’APITELLO E IL CARNARA



Verso N-E, il gruppo montuoso dello Sparviere presenta una lunga appendice a crinale che partendo dal Timpone della niviera, diramandosi fra la Valle Sarmento-Sinni e le diverse valli della riviera ionica, conduce fino alle lontane propaggini meridionali della Piana di Policoro nel Golfo di Taranto. Il crinale è stato da secoli utilizzato come via di comunicazione, da qualche secolo detta Via Regia (70). Da questa si dipartono altre appendici secondarie. Una di esse, quella del Monte Carnara, la più vicina al gruppo originario, si diparte quasi parallela dal rilievo detto Timpone dell’Apitello (circa 1130 m s.l.m.) (96a), posto nei pressi dell’abitato di Alessandria, in Calabria, e termina sulla Fiumara Sarmento, nei pressi degli abitati di San Paolo e Cersosimo, in Basilicata. Nella sua parte culminante, svetta spoglio, roccioso e rotondeggiante il Monte Carnara. Dai suoi non eccessivi 1282 m di quota, si può avere una visione fra le più suggestive sui monti centrali del Pollino e sul gruppo principale dello Sparviere. Sono visibili persino il Monte Alpi, il Monte Sirino e il Monte Raparo (Basilicata centro occidentale) e tutto il Golfo di Taranto-Sibari. Altra caratteristica è la presenza nella sua parte più settentrionale di un lussureggiante e vasto bosco di farnetto e altre specie quercine, chiamato Bosco Capillo e in quella N-O dei così detti dirupi marnosi e semi boscosi di Canale Lappio, dove una colorata pianta, la peonia pellegrina, vi cresce in maniera abbondante.

Questi rilievi, forse per l’abbondanza di api e vespe, da cui l’antico nome, dato all’Apitello e le più prossime contrade, hanno la peculiarità di essere stati scelti come punto di sosta da un particolare rapace migratorio che in primavera si sposta dall’Africa in Europa, il falco pecchiaiolo (detto anche adorno). Qui gli esemplari più ritardatari si fermano per tutta l’estate e persino vi nidificano. Questo importante avvenimento rende quest’area come quella più meridionale d’Italia di nidificazione per questa specie, caso alquanto importante e sconosciuto ai ricercatori del settore (97).



ALTO SARMENTO E IL CRINALE DELLE MURGE



Dal piccolo gruppo del Carnara è ben visibile tutta l’Alta Valle del Sarmento (98) che secondo il mio punto di vista inizia in coincidenza della confluenza fra la stessa valle con il Canale Lappio che si immette nella destra idrografica della Fiumara Sarmento e che nasce proprio dalla parte orientale del Carnara. Più a monte, la fiumara riceve le acque del Canale di San Migalio, un tempo importantissima contrada agricola che mette in contatto l’alto Sarmento con la riviera ionica cosentina. Poco più in alto il successivo affluente, detto Canale della Vitria, si innesta con il Sarmento sempre dal lato destro, di rimpetto al vicinissimo paese di Terranova. Le sue poche acque perenni nascono sotto la vetta del Timpone della Rotondella e, prima di mischiarsi con quelle del Sarmento, attraversano una profonda forra formatosi fra i ripidissimi versanti fliscioidi. Fa parte di questo piccolo bacino anche il versante Nord-orientale della stupenda “timpa” calcarea della Falconara e la rinomata località agricola di Destra delle Donne (99).

Il Sarmento nasce da vari torrenti di Toppo Vuturo (1663 m s.l.m.) e di Serra di Crispo (2053 m s.l.m.), che si uniscono con molta acqua nella ricca contrada agricola-turistica di Casa del conte. Gli immissari principali sono il Canale della Duglia e il Canale Cugno dell’acero, avvolti da una lussureggiante foresta di faggi e mista di abete bianco e di faggio (100).

A valle di Casa del Conte, a mo’ di enorme muraglione, in senso opposto al corso d’acqua, fra terreni d’origine vulcanica, calcarea e fliscioide, è presente nella parte più profonda una sorta di piccola oasi di dura roccia calcarea quasi perfettamente divisa in due parti da una profonda spaccatura, in cui le acque del torrente vi scorrono in maniera rumorosa. E’ detta Garavìna e la sua origine è strettamente legata a quella dei vicini picchi rocciosi della Falconara e di San Lorenzo i quali, con essa, sono perfettamente allineati, a dimostrazione di un’unica comune sotterranea radice. Da sempre è stata amata dall’uomo, quindi da tempo immemorabile abitata e l’integrità ambientale, unita alla bellezza del posto, l’ha trasformata in una delle perle dell’intero Parco Nazionale del Pollino (101).

La lunghezza del canyon non supera i 500 m e l’altezza delle sue pareti, i 150 m. Nel percorrere il suo fondo, fra l’altro in maniera alquanto agevole, si avrà modo di rimanere incantati per le sue morfologie fatte di pareti strapiombanti in cui si abbarbicano grandi esemplari di leccio e vivono numerose specie animali (102). Pochissime e minuscole sono le grotte ma numerosi i terrazzi in cui, se ben organizzate, possono essere effettuate altrettante escursioni, sia semplici sia particolarmente impegnative e tecniche.

Il versante sinistro idrografico della Garavìna, di facilissimo raggiungimento, ha una minore superficie ma è senz’altro più adatto alle visioni paesaggistiche sul canyon e sui monti; al contrario, quello destro, essendo meno coperto dai terreni circostanti ha una morfologia più complessa, pertanto, è più interessante dal lato escursionistico anche perché è quello di più difficile accesso, a diretto contatto con aree più selvagge.



Il versante sinistro idrografico dell’Alta Fiumara Sarmento in cui sono ubicati, da monte verso valle, gli abitati di Terranova, San Costantino e Noepoli, culmina nella sua parte più elevata con un crinale che divide detta valle con quella del Torrente Rubbio, affluente come il Sarmento del Fiume Sinni.

Dai 1526 m di quota della Serra del Prete del Monte Caramola, il crinale scende fino alla confluenza con il Fiume Sinni (200 m ca. s.l.m.). Tra i rilievi maggiori va citata la Timpa delle Murge, alta 1441 m (103), ma va anche segnalata la cosiddetta Pietra Sasso, particolare picco di roccia basaltica con una quota di 1362 m, due perle geologiche dell’intero massiccio del Pollino. Quest’ultimo s’innalza come un enorme dente (da cui il suo secondo nome Dente del Diavolo), perfettamente verticale da un lato per oltre 150 m. E’ un luogo davvero fantastico e visibile da ogni parte, anche da una certa distanza. La morfologia e la costituzione mineralogica dimostrano che questo picco rappresenta il resto di un antichissimo camino vulcanico sottomarino (104).

Se bisognasse segnalare un luogo nell’Italia meridionale dove le rocce basaltiche e ofiolitiche si mostrano in maniera spettacolare, non potrebbe che essere menzionato il Crinale delle Murge, un vero museo geo-vulcanogico naturale.

Come dice il mio amico Salvatore Martorano da Terranova, in queste contrade […] si può rappresentare un’ideale risalita di circa 10 km dall’interno della terra, attraversando la crosta litosferica fino a raggiungere i fondali oceanici. Qui si possono, infatti, osservare i prodotti di eruzioni vulcaniche sottomarine avvenute nell’era mesozoica, quando l’allontanamento della placca euro-asiatica dal continente africano ha dato origine al mare della Tetide. Con i grandi movimenti orogenici dell’età terziaria la crosta oceanica prodotta è stata smembrata e trasportata nell’attuale luogo di rinvenimento insieme a un miscuglio di altri terreni

Altre zone sono di simile origine, sono tutte poste nelle vicinanze del Crinale delle Murge, come il Monte Pelato posto nella vicina Alta Valle del Frido, la Pietra Fronte (e altri simili picchi) posti nella parte superiore dell’alta Valle del Raganello e la Timpa Capàvahe ubicata nella parte più alta della Valle Sarmento, ma opposta al crinale in oggetto.

Camminando su questi rilievi si possono facilmente incontrare rocce con forme e colori irreali; questo accade soprattutto nel versante meridionale della Timpa delle Murge, dove si potrà chiaramente capire la formazione geologica di questi luoghi: prodotti da eruzioni basaltiche sottomarine, formanti pareti a cuscino di lava, sormontate da una copertura sedimentaria fatta da rocce rossastre, bluastre e verdastre, generate dalla dissoluzione dei radiolari (organismi a guscio siliceo). Si possono poi agevolmente individuare anche i fanghi silicei depositatisi sui fondali oceanici a una profondità di 4.500 m e risalenti al Giurassico (oltre 120 milioni di anni fa!).

Per osservare l’originalità di queste rocce è consigliabile affacciarci anche nell’alveo del sottostante Torrente Sarmento (nei pressi della Garavìna), dove i massi lì trasportati o precipitati, essendo a contatto diretto con l’abbondante acqua fluviale, si sono erosi nella loro parte più tenera e ossidati, mostrando così il loro coloratissimo e maculato aspetto, molto simile alla pelle di variopinti serpenti (da cui il nome a queste rocce, appunto dette serpentiniti) (105).

Nei pressi del crinale, ma dal lato del Rubbio, immersi in una fitta vegetazione di faggi, sgorgano delle freschissime sorgenti d’acqua che varrebbe la pena andarci solo per vederle. Nella località Fonte del Salinaro, grazie ad un bell’intervento dei locali operai forestali, una freschissima fontana ci accoglierà inaspettatamente; nella località Catusa, l’acqua che sgorga da fessure rocciose ci farà capire l’importanza di questo bene prezioso.

Infine, poco oltre quest’ultima sorgente, verso la vetta del Carnara, fra piccole pareti rocciose sempre d’origine vulcanica, inglobate perfettamente nel fitto del bosco di faggi, si apre la Grotta dei briganti, mitica per eccellenza, anche detta dei Vitelli, piena zeppa di mistero anche se piccolissima. Un’antica frase sibillina incisa nella parete d’ingresso e diverse firme di visitatori post-ultima guerra, ci fa capire la sua importanza storico-leggendaria. (71)



IL CUORE DEL POLLINO



L’Alta valle del Sarmento e l’Alta valle del Raganello sono da considerarsi il miglior posto di partenza per raggiungere il cuore dei monti del Pollino che per la loro particolare lontananza, bellezza e vicinanza al cielo ho voluto trattare per ultimo in modo da concludere questo viaggio nella Terra di Marsilia in maniera speciale.

La parte più interna della Terra di Marsilia fa pienamente parte del così detto “cuore” del Massiccio del Pollino. E’ il luogo montano nel vero senso della parola, puro e incontaminato, molto aspro e isolato, grande meta, nell’antichità, dei cercatori di piante medicinali (72).

Vasti e fitti boschi di faggio o misti di faggio e abete bianco e rigogliose praterie d’alta quota fanno da cornice ai rilievi principali, i quali per la maggior parte superano i 2000 m di quota. Agli ultimi “pionieri” di faggio, che a vederli sembrano molto soffrire abbarbicati su quegli alti versanti, si mescolano e sostituiscono imponenti e arcaiche piante di pino loricato, che proprio in queste alte quote offrono il meglio di se stessi (106).

Sono tanti i luoghi di particolare pregio. Oltre alle vette, sicuramente fantastiche, si segnalano i pianori erbosi detti Piana del Pollino e Piano Toscano (107). Il primo, posto a occidente dello storico valico della Grande Porta di Pollino, fra, e sottostante, la vetta di Serra delle Ciavole e Serretta della porticella, è un vero e proprio altopiano con una quota costante di circa 2000 m. L’altro, confinante e sottostante al precedente, è una vastissima valle chiusa con base particolarmente estesa e pianeggiante, con una quota nel suo punto più basso di circa 1800 m, nella quale è presente un inghiottitoio inesplorato detto Trabucco del Pollino o Fossa del Lupo (73). In questo avvallamento racchiuso e dominato dalle tre principali vette del gruppo Serra Dolcedorme, 2267 m, Monte Pollino, 2248 m e Serra delle Ciavole, 2167 m, circondata da una copiosa vegetazione, composta da alberi di faggio e vetusti pini loricati, ai bordi esposti a nord, qualche milione di anni fa si sono depositate numerose morene, ormai fossili, testimonianze di remote glaciazioni (108).

Bellissimi sono i valichi della Grande Porta del Pollino (109) e delle Ciavole (110) e i luoghi che li precedono o li susseguono, come il piccolo pianoro di Acqua fredda e poco più a valle quello detto di Fossa, il cui nome ci fa capire la sua caratteristica principale e cioè una ricca presenza di doline. Entrambi sono posti nella profonda e verde valle formatasi fra la Serra Dolcedorme e la Serra delle Ciavole (111) e coincidono con la parte più interna e alta del vastissimo bosco di faggi detto Fagosa, la cui caratteristica principale oltre ad essere notevolmente compatto e vasto, è la presenza al suo interno di piccole radure e soprattutto la stupenda cornice offerta dai versanti orientali e settentrionali delle principali vette del Pollino e dalle sottostanti Gole del Raganello dominate dall’immensa e verticale parete di Timpa di San Lorenzo (112). Qui si è anche direttamente collegati con il lungo e acuto crinale che dal Dolcedorme scende prima alla Manfriana e infine al Monte Moschereto e di conseguenza nel Basso Raganello e nell’Alta valle dell’Eiano.

Spostandoci poi verso N, alle pendici N-O della Serra di Crispo, nella parte sommitale della Valle del Sarmento, oltre alla Crispo stessa e alle sue grotte (74), vi è il luogo detto Pietra castello e il sottostante Bosco di Duglia-Cugno dell’acero composto in prevalenza da specie miste faggio-abete e da cui scaturiscono, copiose, le sorgenti del Torrente Sarmento. Il grande picco roccioso del castello, come il resto delle rocce “frantumate” di Serra di Crispo, è di origine calcarea. Su di esso si abbarbicano imponenti esemplari di pino loricato che dominano dall’alto, a mo’ di castello, appunto, detta foresta (113). A monte, fino alla vetta di Serra di Crispo, sono presenti i luoghi più selvaggi e aspri di tutto il Pollino, in parte brulli e soprattutto rocciosi, pieni di doline, avvallamenti, anfratti, pareti, dirupi; senza sentieri; un luogo insomma di …briganti, come del resto lo è stato a metà ottocento (75)! L’antico tracciato della via dei pellegrini, detta anche “Ruepinc” (purtroppo dal nome della società che a inizio ‘900 tagliò quel bosco) fa pressappoco da cerniera fra i boschi e le soprastanti vette rocciose. I fedeli partivano dai vari luoghi della riviera ionica cosentina per recarsi all’importantissimo Santuario della Madonna del Pollino, luogo alquanto amato e venerato da tutte le popolazioni dell’area calabro-lucana (76).

Ancora più a oriente si eleva la verde vetta di Toppo Vuturo e poco prima si aprono nell’intenso verde del bosco i pianori di crinale detti di Cardone e Giumenta, notevolmente vicini alla Timpa della Falconara (114). L’area del Vuturo, dal nome locale dell’avvoltoio degli agnelli, che qui viveva, è facile da raggiungere perché posta al centro di un vasto territorio e per questo da sempre strategica (77) e bella da gustare, dato che la sua natura può definirsi dolce, per l’assenza di accentuati pendii e la presenza tutt’attorno di vasti e fitti boschi di faggio intervallati da pianeggianti e grandi radure, oltre ovviamente alla presenza di visuali tipiche montane.



Ma di tutte queste bellezze della parte alta della Terra di Marsilia a me piace raccontarvi soprattutto di alcuni strani esseri che sono un’arcaica testimonianza di antiche ere, soprattutto quella Triassica (circa 200 milioni di anni fa). In Italia si fanno vedere solo nell’Appennino lucano e per la precisione nel tratto di confine fra le regioni Basilicata e Calabria, ma qui nella Terra di Marsilia sono presenti in maniera spettacolare. Nel resto del mondo li si può ammirare, sempre in maniera mastodontica e emozionante, nella vicina terra dei Balcani, fra Albania, Grecia e Cossovo. Sono quindi esseri rari. (78)

Per chi non l’avesse ancora capito, sto parlando degli ultrasecolari alberi detti Pini loricati, “morfologicamente” molto particolari: robusti, tozzi, maestosi, imponenti ed irregolari con rami a volte quasi più robusti del tronco (115); quest’ultimo è solitamente eretto, sempre massiccio e con un poderoso e forte apparato radicale; raggiungono un’altezza di 40 m e un’età di oltre 1000 anni (116); molti esemplari hanno un diametro del tronco, ad altezza d’uomo, di oltre 1,70 m; possiedono poca ma densa chioma, prevalentemente a forma piramidale ma irregolare. Cresce in stupendi luoghi, ma solo in terreni e rocce di origine calcarea, soprattutto in zone rocciose, anche particolarmente esposte, alte e fredde. Molti pini crescono oltre i 2000 m ma molti altri cominciano a essere presenti anche in zone così dette mediterranee, a partire dai 500 m e non ha importanza se il luogo di crescita è esposto a sud oppure a nord. Si tratta quindi di una pianta molto adattabile, forse unica anche da questo punto di vista.

Il suo legno è davvero eccezionale. Paradossalmente, una volta morto, l’albero rimane in piedi moltissimi anni, forse anche cento; per la sua elevata e particolare resinosità, non marcisce facilmente. Questo dona ai luoghi in cui cresce un qualcosa in più, rendendoli ancora più attraenti. Può sembrare strano ma è davvero affascinante beneficiare di una visione mista di pini morti e pini vivi (117). Non a caso quest’albero è stato scelto come simbolo del Parco Nazionale del Pollino.

Chi deciderà di visitare la Terra di Marsilia e del Pollino in genere non può fare a meno di organizzare un’escursione per ammirare i pini loricati. Si tratta fra l’altro di tragitti facili, ma in ogni caso (ed io aggiungo “per fortuna”), i pini loricati non sono raggiungibili con le autovetture. Il tempo di percorrenza per arrivare a contemplarli non è da considerarsi eccessivo, solitamente non supera le due ore di sola andata e la quota minima da raggiungere è di 1500 m, ma di solito si toccano di solito i 2000 m.

Ma come mai è quasi indispensabile parlarne e convincervi ad andare e far loro una visita?

Il pino loricato è quasi un fossile vivente, arrivato miracolosamente fino a noi dall’ultima glaciazione e già questo la dice lunga. Le sue forme, il tronco, i rami, i luoghi in cui cresce, uniti alla quasi millenaria longevità della maggior parte degli esemplari, sono un vero e proprio piacere, un trionfo della natura, fanno insomma del bene allo spirito, almeno ai più sensibili. Per questo genere di persone, quindi, i luoghi in cui crescono, sono quasi un paradiso, un luogo da fiaba, dove ci si sente davvero piccolissimi e inermi, ma in tutta tranquillità e felicità, soddisfatti e felici di aver raggiunto la Grande porta del Pollino (118), la Serra di Crispo, la Serra delle Ciavole, la Serra Dolcedorme (e anche la Timpa di San Lorenzo) e di averle trovate identiche a com’erano migliaia di anni fa.

Gli antichi popoli mediterranei non a caso rappresentavano la casa degli Dei nelle alte vette. Il Pollino per i greci e i romani non fu indifferente e nemmeno agli escursionisti attuali che hanno spontaneamente appellato il luogo dove crescono con maggiore vigore, la Serretta della Porticella, il …giardino degli Dei (119).

Ma per dare una maggiore idea dei posti che si attraversano e delle relative sensazioni che si potranno provare, voglio sottolineare che alcuni miei amici hanno definito questi alberi come dei “Davide del Pollino”, oppure come degli “esseri spogli che sembrava avessero una mano pronta per acchiappare ogni cosa che gli passasse vicino; con i capelli spettinati e che si fossero appena alzati dal loro letto formato da fogliame secco per cercare da mangiare nelle sottostanti vallate”.

La definizione che ancora meglio ci farà capire di che si tratta è venuta però dalla penna del mio amico faentino Lorenzo Brandolini:

ALLA CORTE DEI PATRIARCHI – …Un’ultima salita e finalmente conquistiamo i Piani del Pollino, quest’originale altopiano a catino, coronato e nascosto come un prezioso segreto dalle principali vette del Parco.

“Ma la conquista è solo una parola priva di significato, solo un’illusione. Prima di noi e prima di qualunque altro essere umano che avesse mai messo piede in quelle plaghe, i Piani erano stati già conquistati da grandiosi esseri che li avevano difesi e conservati per millenni senza mai muoversi”.

I pini isolati possono già suscitare un senso di forza, grandezza, resistenza, ammirazione, ma vedere tutti insieme quelli che ricoprono Serra di crispo e delle ciavole, prima da lontano poi portandosi rispettosamente ai loro piedi, nasce quasi un’inquietudine, come di fronte a un esercito immobile di giganti.

I pini loricati occupano le creste delle serre e i versanti che guardano i Piani di Pollino e Toscano, sono radi, mai fitti, molti sono scortecciati perché secchi e mostrano in tal modo il loro tronco di un bianco abbagliante alla luce intensa del sole.

Man mano che ci avviciniamo ai grandi pini, ci viene in mente una storia che non ci hanno mai raccontato; forse sono i pini stessi, e il vento, che la sussurrano alle nostre orecchie, per dirci che quello è sempre stato regno loro e che tale dovrà rimanere, con l’aiuto di quegli uomini che sanno ascoltare queste voci e che sanno tramandarle.

Questa è la storia: << Arrivò in queste terre, ancora spoglie, un esercito di avanguardie, non di uomini, ma di strani soldati possenti, immobili, dotati di eccezionali e inquietanti corazze. Non formarono una barriera impenetrabile, ma ciascuno prese la sua posizione, il suo spazio vitale, distante dagli altri, sfiorandosi solo con i lunghi e robusti rami orizzontali, simili a frecce pronte ad essere scoccate; un esercito immobile, silenzioso, che ricevette l’ordine di difendere e conservare il territorio conquistato, senza mai abbandonarlo, a costo della vita, di fronte a qualsiasi nemico. Ma il vero e unico nemico è stato solamente uno, piccolo ma invincibile, l’uomo. E molti soldati caddero in quella lunga battaglia, e furono estirpati dal loro regno senza poter neppure trascorrervi l’eternità. Altri ancora sono stati vinti dal tempo, ma non hanno abbandonato le loro radici e i loro compagni ancora vivi, e svettano ancora oggi, privi di corazze, memori del comando ricevuto, a monito di tutti coloro che pensano che quelle terre siano ancora da conquistare >>…



Ecco perché credo che i pini loricati siano quegli “alberi della dimenticanza” che la “malafemmina” Marsilia utilizza per influenzare gli uomini in modo da far capire loro che vi sono cose molto più importanti di quelle materiali.



Concludo questo mio racconto, certamente incompleto, da Serretta della porticella, sperando che vi sia piaciuto. Il mio sguardo è verso oriente, dove dalla cima del Monte Sparviere, mio luogo d’origine, nasce, splendido, l’intenso sole mediterraneo, illuminando da tempo immemorabile questa stupenda Terra di Marsilia (120).


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Le variazioni casuali Le implicazioni metodologiche e filosofiche di un concetto centrale della teoria darwiniana* Saverio De Marco Introduzione Il concetto della variazione casuale è alla base dell’impianto teorico darwiniano sulla selezione naturale. In questa tesi vorrei descriverne la sua genesi e le sue implicazioni, avendo come riferimento l’opera più importante di Darwin, L’origine delle specie , rilevarne le critiche a cui fu sottoposta e mettendo in risalto il carattere di innovazione metodologica profonda. Consapevole di addentrarmi in un campo vasto e complesso, una parte di questo lavoro tenterà una breve rievocazione degli studi sulla genetica successivi a Darwin, che consentirono di scoprire le cause della variazione, problema che Darwin aveva lasciato insoluto. Fu però proprio l’ammissione dell’inconoscibilità delle cause che consentì a Darwin di superare gli ostacoli che si frapponevano alla sua teoria e che ne determinò il suo carattere “aperto” all

La Gioconda: il Pollino ai tempi della speculazione edilizia - di Domenico Cerchiara

ruspa al lavoro nei pressi della Fagosa - foto di D. Cerchiara Sono lieto di proporre all’attenzione dei lettori una testimonianza dell’amico Domenico Cerchiara  ex sindaco di San Lorenzo Bellizzi e uno dei primi promotori della protezione ambientale nel Pollino. Negli anni Settanta Domenico si oppose ai tentativi di speculazione edilizia della “Gioconda”, una società immobiliare che avrebbe voluto riempire il Pollino di strade asfaltate, villette e ristoranti in luoghi ricadenti in quelle che diventeranno le aree naturali più importanti del Parco Nazionale. Abbiamo chiesto a Domenico di illuminarci su queste vicende, dopo un’escursione da Fagosa a Casino Toscano, durante la quale chi scrive aveva incontrato vari fabbricati e baracche di cui si ignorava l’origine. Dobbiamo essere tutti grati a persone come Domenico Cerchiara e ad altri, che in quel periodo si opposero a questi avvoltoi (con rispetto per gli avvoltoi veri) senza scrupoli. E immagino che all'epoca, viste

FRANCO ZUNINO: IL JOHN MUIR ITALIANO!

FRANCO ZUNINO: IL JOHN MUIR ITALIANO! (Il più controverso ambientalista italiano) Tessera n. 276 del WWF Italia (rinnovata ogni anno dalla fondazione, forse, con Pratesi, il Socio più anziano!), il primo ad aver effettuato ricerche scientifiche sull’Orso Marsicano. Nei primi anni ’80 diffonde in Italia il wilderness concept e le sue implicazioni filosofiche e conservazionistiche, fondando nel 1985 l’Associazione italiana per la wilderness (AIW) di cui è tuttora Segretario Generale. Le sue posizioni su problematiche spinose, come la conservazione degli ultimi spazi naturali, il turismo nei parchi, le strategie di conservazione di specie vulnerabili, caccia, nucleare, hanno diviso e fatto discutere il mondo ambientalista e l’opinione pubblica. Una delle ultime esternazioni ha riguardato la sua posizione favorevole al contenimento anche “cruento” della crescita demografica del lupo, con l’apertura agli abbattimenti ragionati di esemplari problematici, come già realizzato in altri Paesi