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Una riflessione sui parchi (dalla rivista Nunatak)


Riporto all'attenzione dei lettori di questo blog un punto di vista critico e contempoeaneamente originale, utile per una riflessone sul tema dei parchi e della conservazione naturale, nel suo rapporto con le comunità locali e  il tema della "modernità". L'articolo è tratto dal numero 18 di "NUNATAK, Rivista di storie, culture, lotte della montagna", curata da un gruppo di attivisti delle Alpi... Ritengo personalemente che il concetto di area protetta sia importante ai fini della conservazione naturale, perchè, come si riconosce anche in questo articolo, ha permesso di strappare alla speculazione e alla distruzione lembi importanti di natura selvaggia: è figlio della modernità e come individui noi stessi "moderni" abbiamo il dovere di riformurarlo per riportarlo al suo autentico scopo sociale. Ciò che è da disapprovare è che spesso gli enti di gestione siano diventati appannaggio della politica istituzionale, smarrendo anche quella che era la loro funzione originaria: la salvaguardia di aree di interesse naturale; spesso funzionando come agenzie di marketing turistico e destinando fondi pubblici a progetti calati dall'alto, senza nessun tornaconto per i comuni e le popolazioni locali. Sebbene il turistmo sia una risorsa importante per le popolazioni montane, sbagliata è anche la concezione del Parco unicamente come area ricreativa e di divertimento... da attrezzare quindi in vista di questo unico scopo, dove le comunità locali diventano attori passivi del progesso di protezione o al limite come i "figuranti" di una scena paesaggistica e ambientale ad uso e consumo dei capricci del turista cittadino, con tutti i danni sociali e anche ambientali che quest'approccio reca con sè (economia dipendente dai gusti e dalle tendenza oscillanti del mercato turistico, rappresentazione fittizia della cultura locale, costruzione di rifugi, funivie e strade, segnaletica invasiva, parcheggi e aree pic-nic in luoghi a forte valenza naturalistica). Giusto anche il richiamo al rispetto dei diritti ancestrali delle comunità, ma è giusto anche che le stesse popolazioni facciano autocritica e comincino a capire l'importanza della difesa dell'integrità del proprio territorio contro i progetti speculativi (che spesso si celano dietro la bella maschera dello Sviluppo), avanzando contemporaneamente il loro diritto a "viverci".
Indio

(link dei numeri della rivista, alcune in formato PDF: (http://www.ecn.org/peperonenero/nunatak.htm)

PARCHI: SALVAGUARDIA O
NATURA PRIGIONIERA?


di Loris





UN PRIMO CONTRIBUTO PER AFFRONTARE UNO DEGLI ASPETTI PIÙ CONTROVERSI DEI PARAMETRI E DEGLI STRUMENTI DI GESTIONE DEL TERRITORIO ADOTTATI DALLE ISTITUZIONI, OVVERO LA QUESTIONE DEI PARCHI NATURALI. UN ARGOMENTO RICORRENTE QUANDO SI DISCUTE SULLA NECESSITÀ DI PORRE DEI FRENI AL DILAGARE DEI MALI DELLA MODERNITÀ IN TERRITORI MENO CONTAMINATI, E CHE D’ALTRA PARTE RENDE EVIDENTE LA SUBORDINAZIONE DI CONCETTI QUALI “NATURA” O ECOLOGIA AGLI INTERESSI DELLA POLITICA (NON DIMENTICHIAMO CHE LA NOMINA DEI DIRIGENTI DEI PARCHI È OGGETTO DI CONTRATTAZIONE NELLA SPARTIZIONE DELLE CARICHE PUBBLICHE TRA I VARI PARTITI). APRIAMO CON QUESTO SCRITTO UN NUOVO FILONE TEMATICO CHE, AL PARI DI ALTRI CHE ACCOMPAGNANO IL CORSO DELLA RIVISTA, CERCHEREMO DI SVILUPPARE GRAZIE AD UN CONFRONTO A PIÙ VOCI.


Quando si parla di montagna, spesso si evoca l’istituzione parco come simbolo di natura
incontaminata e messa al riparo dalle minacce dell’uomo. L’uomo, nel corso della sua “evoluzione”, è stato il principale responsabile della distruzione del territorio inteso come bene comune ridotto a merce da svendere e privatizzare, e della negazione quasi totale di un rapporto diretto degli individui con la terra e della conseguente loro separazione. Da qui la graduale sostituzione dei rapporti umani e sociali poco mediati
e quanto più possibile autodeterminati con un mondo che fa del consumo e del profitto la base su cui costruire le sue relazioni e fortificare i suoi privilegi. Sono valutazioni, queste, che non ci stancheremo mai di ribadire e che sempre influenzeranno il nostro agire. Ma che una possibile inversione, come alcuni scrivono e credono, possa passare attraverso la costituzione di fittizie oasi incontaminate (di fatto concesse da chi perpetra il disastro) e tutelate dal controllo “poliziesco”, è una cosa a cui assolutamente non crediamo ed a cui siamo per ovvie ragioni ostili, anche perché, secondo noi, rappresenta un’altra faccia dell’estraneità
uomo-natura. In merito alla “natura”, idea confusa e parola oramai abusata, si dovrebbe peraltro ampliare la riflessione, ragionando sull’origine del suo concetto (da far risalire, come oggetto di studio e interpretazione, al secolo XVII-XVIII) e sul suo essere percepita come qualcosa altro da noi, al di fuori, estraneo appunto.
Se l’idea di natura come la si usa comunemente (ovvero un’entità primordiale da domare perché d’intralcio all’attività umana o nella migliore delle ipotesi una fragile creatura da tutelare) è comparsa in un periodo storico relativamente recente, è perché precedentemente tra uomo e ambiente circostante esisteva una sostanziale continuità. Questo non significa ridurre l’esistente ad un tutt’uno senza distinzioni, ma è da riconoscere che una certa visione della Natura non supera assolutamente le distanze e la contrapposizione con essa, ma si limita a preservarne alcuni aspetti con una superbia simile a quella con cui la si distrugge, attribuendogli spesso e volentieri l’ingrato ruolo di lenire e assecondare la momentanea ricerca di evasione e relax di chi invece vive ed alimenta, e di conseguenza garantisce, il trionfo dell’artificiosità metropolitana. Non poté che elaborarsi su questa cultura, immagino, l’idea di Parco Naturale. Senza voler necessariamente mettere in discussione la buona fede di alcuni dei sostenitori o garanti di queste strutture, la realtà dei fatti si esprime attraverso i soli pochi risultati ottenibili istituzionalmente: confini delimitati e divieti al singolo, zone off limits, e ambiente da osservare come al museo si osserverebbe un bel quadro… e l’arte spesso si paga… all’entrata. Oltretutto i limiti di queste realtà sono immediatamente riscontrabili nell’asservimento che non di rado si manifesta nei confronti dei poteri forti che, attraverso la scala gerarchica che li contraddistingue, agiscono per lo più indisturbati nei loro progetti. Sarà sempre piuttosto difficile sentire levarsi, dalla direzione di un Parco Naturale, una voce di dissenso per quanto concerne, per esempio, la realizzazione al suo interno di un elettrodotto, l’istallazione di impianti GPS disseminati lungo i sentieri o il proliferare di militari che utilizzano “l’incontaminato”terreno per i loro esperimenti bellici. Per non parlare poi di ciò che gli accade attorno, che sembra non turbare più di tanto l’incantato sogno naturalistico del signor Parco. In compenso, alcuni dei saperi alpini di antica memoria come la raccolta delle erbe spontanee o dei funghi, la pulizia dal legname giacente al suolo, o il pascolo nomade sprovvisto di previa autorizzazione ecc. vengono puniti a suon di sanzioni indiscriminate. Il risultato non può essere altro se non la graduale perdita di familiarità con tali pratiche e abitudini, che, se conservate, garantirebbero una conoscenza tale da non essere un rischio per alcuna specie, tanto vegetale quanto animale, umani compresi, se solo si tornasse a pensare alla sopravvivenza di altre specie come determinante anche per la nostra. A questo proposito mi sembra emblematica una vecchia pagina di un giornale locale che affiancava un articolo inerente l’intenzione di costruire un mega elettrodotto dell’alta tensione,che avrebbe dovuto attraversare per intero il Parco Naturale Orsiera Rocciavrè (senza che tale progetto avesse ricevuto critica alcuna da parte del Parco), ad un trafiletto che narrava la vicenda legale di un pastore rumeno pesantemente multato per pascolo abusivo in territorio parchivo. Lascio a chi legge le considerazioni del caso, che penso siano piuttosto ovvie e possano aiutare più di altro a far emergere l’identità dell’istituzione Parco. Se poi, oltre a porre una critica alla “buona volontà” di certi parchi, prendessimo in considerazione l’azione speculativa di alcuni di questi, ci sarebbe sicuramente da dilungarsi... Della non meglio precisata autenticità di un paesaggio o delle dubbie reintroduzioni faunistiche molti parchi hanno fatto una macchina da profitto di cui servirsi laddove l’esibizione ambientale riesca a integrare il turismo di massa fatto di cemento, asfalto, alberghi e ski lift. Da una parte quindi il salvaguardismo più o meno autoritario, dall’altra invece l’industria dell’intrattenimento assetata di guadagni travestita da lupo, da orso, o da qualche altra icona di richiamo da dare in pasto al turista eco-sensibile. In questo caso il Parco diventa parco dei divertimenti, con le sue giostre e le sue code, i suoi biglietti e le sue recinzioni. Certo, nella migliore delle ipotesi in questi luoghi non vedremo comparire le brutture edilizie o le grandi opere viarie. E di ciò me ne rallegro. Ma fino a che punto potrà essere considerato naturale uno spazio esclusivo e ingabbiato nella pochezza di quattro leggi dettate dal senso di colpa, riempite di orgoglio del proibire e fatte rispettare (come altro non potrebbe essere) da guardie e gendarmi in divisa verde?
Il nostro sentire ci impone un’altra prospettiva, che si esprime intorno all’ipotesi dell’au- torganizzazione delle comunità alpine, e non attraverso la loro subordinazione, anche in un contesto di custodia del territorio. Ammetto non sia sempre facilmente immaginabile pensare che la popolazione alpina nel suo complesso abbia una coscienza totalmente sufficiente a poter preservarsi, anche nei confronti di se stessa. Preservarsi dalle insidie del mondo urbanizzato e dalla distruzione o dal saccheggio delle risorse necessarie ad una vita meno asservita ai grandi capitali. Alcune esperienze però dimostrano quanto in contesti di rottura con lo stato di cose è stato possibile, anche solo momentaneamente, prendere in mano il destino delle proprie valli o in generale dei propri territori, in merito a questioni specifiche, senza deleghe o rappresentanti. È su queste basi che vorrei che si formassero le condizioni affinché la montagna venga difesa attraverso i gesti di chi ne è parte integrante, e non da enti o società separate erettesi a governanti del territorio. Una riflessione in questo senso, con tutti i suoi limiti e le sue incompletezze, credo possa servire per ragionare sulla liberazione delle
Alpi, e delle montagne nel loro insieme, dai loro avversari e dai loro falsi ammiratori.


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